Ritorno in Argentina, con Javier Milei

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«Più in basso di così non si può scendere», avevo pensato l’ultima volta che c’ero stata nel dicembre del 2023. Sono tornata a Buenos Aires un anno dopo, ripensando a una frase che avevo sentito in un bar prima delle elezioni presidenziali: «La cosa peggiore che può succedere agli argentini non è la vittoria di Milei, è che a Milei vada male».

Era un pensiero sensato, di assoluto buon senso, e allora perché una parte di me e degli argentini si augurava, e si augura ancora, che gli sarebbe andata malissimo? Volevo dimostrare che l’Argentina non sta affatto meglio, come sostiene gran parte dei mezzi di informazione in Italia e nel mondo. Che non può stare meglio. È vero, come tutti dicono, che l’inflazione è calata e si intravede un piccolo risveglio economico, ma anche che la povertà ha toccato picchi del 53 per cento. Guardando, leggendo e parlando con economisti, avrei dimostrato che questo dato pesa più di tutti gli altri messi insieme. Immaginavo di trovare un Paese in subbuglio e, invece, mi è sembrato stordito.

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A tavola, in famiglia, non si è mai parlato di politica. Di cinema e libri sì; molto della serie Envidiosa – su Netflix – e moltissimo di La llamada, un libro che racconta la storia di Silvia Labyru, sopravvissuta alla Escuela de Mecánica de la Armada, il centro di detenzione clandestino che operava durante la dittatura militare. Non appena si faceva un accenno a Milei, qualcuno diceva: «Ah sì, el loco?» e poco più. 

– Leggi anche: L’inflazione in Argentina e le tigri azzurre di Borges

Ne ho parlato con Santiago Poy, un sociologo esperto di povertà della fondazione Fundar, un importante think tank di Buenos Aires che si occupa di politiche pubbliche. L’appuntamento era da Lucio, una pizzeria italiana in Scalabrini Ortiz e Güemes, nel quartiere Palermo. «Non si parla di politica perché c’è smarrimento», mi ha detto Santiago, ordinando un caffè a un cameriere vestito come quelli di una volta. La percentuale di poveri è un dato freddo, che dice molto e niente allo stesso tempo. E poi cosa significa essere poveri?

Poy mi ha spiegato che la povertà è un film, non una foto. «Un calciatore a cui non rinnovano il contratto non è povero». Si misura con una soglia assoluta aggiornata ogni anno in base all’indice dei prezzi, che tiene conto dei soldi guadagnati e dichiarati, in relazione alle spese necessarie per soddisfare i bisogni basici. Non è povero chi a fine mese non riesce a pagare le bollette. È povero chi non riesce a pagarle per così tanto tempo che alla fine non ha neanche più bollette da pagare.

Parlando con lui mi sono resa conto di qualcosa che sapevo già, ma volevo negare per poterla attribuire a Milei: i poveri non sono figli suoi. «La povertà ha toccato un picco del 53 per cento, il 10 per cento in più rispetto a quando Milei è stato eletto nell’ottobre del 2023, per lo shock economico provocato dalla deregolamentazione e dalla cancellazione delle restrizioni cambiarie», mi ha detto Poy. «Poi, però, questo dato è cominciato a scendere e oggi siamo agli stessi livelli di prima dell’elezione». Insomma, ci siamo ritrovati al punto di partenza, con la differenza che ora siamo diventati più credibili per il mondo. E non è poco. Per questo, nonostante la politica della motosierra, la motosega, i tagli selvaggi alla spesa pubblica, il presidente mantiene un livello di gradimento che supera il 50 per cento.

– Leggi anche: Il video di Javier Milei che regala a Elon Musk una motosega, simbolo dei “tagli” alla spesa pubblica

Che non si parli di politica è la prova che l’economia va bene?, chiedo. Nessuna risposta. I risultati di Milei creano una crisi identitaria e politica senza precedenti. Il Varela Varelita, un bar a pochi passi da Lucio, è diventato un bunker di politici di sinistra e intellettuali passati di moda. «Eravamo tranquilli con certe verità che adesso dobbiamo mettere in discussione; pensavamo che c’erano cose che non si potevano fare e invece questo governo le ha fatte». Le parole di Poy mi risuonano in testa. Per mettere in ordine i conti, il governo ha introdotto 672 riforme alle leggi e alle regole: 1,8 interventi al giorno, la metà per eliminare norme, l’altra metà per semplificarle.

Come ogni anno cammino per Libertador con un mazzo di gelsomini in mano. Vado a fare visita a mia nonna al cimitero. Il viale in questo periodo dell’anno è pieno di alberi in fiore. Mentre cerco di non calpestare una «baldoza floja» – la piastrella rotta che bagna i piedi, che ha ispirato il famoso tango di Argentino Ledesma – mi chiedo che fine abbiano fatto le persone che dormivano per strada. Anche quelli che l’anno scorso mi chiedevano di comprare le calze sono spariti; persino mio figlio di 12 anni lo ha notato «L’Argentina sta meglio, non ci sono più poveri».

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All’incrocio tra Libertador e Billinghurst, dove c’è l’ambasciata italiana, chiedo all’edicolante della zona, Fernando. Secondo lui il sindaco di Buenos Aires, Jorge Macri, fratello dell’ex presidente Mauricio, in carica da dicembre del 2023, li porta alla frontiera in pullman così che se ne deve occupare il governatore. «Il sindaco ci tiene al decoro», dice, mentre spiega a due svedesi dove si compra la tessera che serve per prendere l’autobus. In questa zona si vedono più turisti che argentini. Arrivo al cimitero della Recoleta e una signora mi ferma per chiedermi dove sia la tomba di Evita Perón.

Qualche giorno dopo, guardando una partita a calcio di ragazzini, mio padre dice al suo amico Franco Castiglioni, l’ex direttore della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Buenos Aires (UBA): «Il peronismo è morto con Perón». Vuole distinguersi da quelli che sono ancora chiamati peronisti, ma sono, invece, kirchneristi. Mio padre, Carlos Alberto Álvarez, detto “Chacho”, ha dedicato la sua intera vita alla politica, prima sotto la dittatura militare poi, dal ’83, in democrazia.

Siamo seduti in un tavolo all’aperto di un centro sportivo di Palermo, il quartiere più verde della città. L’anno scorso c’era la dengue: le zanzare erano una minaccia pari all’inflazione e il repellente un bene di lusso. Ma quest’anno anche la dengue è sparita. «Milei è figlio del fallimento di tutte le idee che sono venute prima portate all’estremo dal kirchnerismo», dice Franco mentre mangia un toast.

È stato il mio primo professore all’università e da allora ha ricoperto una serie di incarichi importanti, tra cui quello di direttore del Instituto del Servicio Exterior de la Nación (ISEN), un organismo pubblico che seleziona gli aspiranti alla carriera diplomatica. Per Franco Castiglioni, Milei ha una direzione e, avere un’idea di paese, è di per sé una buona notizia. «Non si poteva andare avanti stampando moneta e aumentando il debito pubblico». Su questo sono tutti d’accordo. «Poi, però, bisogna vedere in cosa consiste questo modello, questo capitalismo anarchico, e capire se è sostenibile nel tempo e se include tutte le parti sociali o solo chi ha di più». 

Con la crisi dei partiti politici tradizionali, sono i leader che decidono il modello. C’è chi sostiene, come Castiglioni, che Milei ne abbia uno e che provocherà un cambio strutturale nell’economia argentina. E c’è chi, invece, pensa che il presidente abbia come unico scopo tenere i conti in ordine, e che per il resto improvvisi. Dai suoi discorsi e dalle sue politiche, però, una traccia di modello c’è. Milei vuole un’economia aperta, concentrata sull’industria mineraria, che ha meno capacità di creare impiego, e uno Stato ridotto all’osso: «il mio disprezzo per lo Stato è infinito», ha dichiarato recentemente all’Economist.

Minimi investimenti in scienza e tecnologia, salute, educazione, cultura; non sono temi di competenza statale, tocca al mercato pensarci. Lo Stato penserà a far quadrare i conti e il beneficio economico che ne trarranno pochi scenderà con un effetto cascata su tutta la popolazione. È la teoria liberista del trickle down, dello “sgocciolamento”, che si basa sul presupposto che i benefici economici elargiti ai ricchi favoriscano anche i poveri. Il rischio è fare la fine del Messico: 20 anni di stabilità economica, 50 per cento della popolazione sotto la soglia della povertà.

Castiglioni è convinto che Milei abbia in mente la strada intrapresa dal Cile e il Perù, il problema è che ignora completamente le differenze strutturali di questi due paesi rispetto all’Argentina. Anche l’economista Rubén Geneyro è d’accordo: «Il Cile e il Perù, intanto, hanno un numero di abitanti molto inferiore. I cileni sono 19 milioni, i peruviani 34, gli argentini 46. E in Cile e Perù c’è poca industria». Geneyro è stato presidente dell’Instituto Nacional de Tecnología Industrial (INTI), un ente pubblico che si occupa di crescita e innovazione di piccole e medie imprese.

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È il più pessimista degli esperti che ho incontrato. Siamo a El Ateneo di Santa Fé e Callao, un ex teatro trasformato in libreria che per il Guardian nel 2015 era la seconda più bella del mondo. Dai pullman scendono frotte di turisti. Geneyro è certo che il “miracolo” è una grande bugia basata sull’indebitamento e sui tagli indiscriminati; il suo sarà un successo di breve durata che avrà effetti devastanti a lungo termine, anche se con la politica della motosierra è riuscito a dimezzare l’inflazione. «Quello di Milei è un modello distruttivo», mi dice, «che non tiene conto dell’industria nazionale e del sistema scientifico e tecnologico. A lungo il paese perderà gradualmente il suo sistema produttivo e i lavori qualificati. È la stessa strada che percorse Carlos Menem negli anni ’90, con la differenza che Menem aveva da vendere i gioielli della nonna».

– Leggi anche: Diego, Menotti e gli altri fantasmi

Un decennio di menemismo ha lasciato un paese con molta disoccupazione, ma Milei, mi racconta Rubén Geneyro, ha una sua strana teoria secondo la quale le persone espulse si inventeranno nuovi lavoretti che nasceranno da nuovi bisogni. Ovviamente sarà lavoro irregolare. Si sta passando da un estremo all’altro – il kirchnerismo aveva una politica assistenzialista e interventista dal punto di vista economico – e questo, secondo Geneyro, avrà un impatto sociale enorme sulla povertà.

In Italia ogni giorno c’è una notizia su Milei: vuole uscire dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dagli accordi internazionali di Parigi sul clima, abolire il reato di femminicidio, paragona l’omosessualità alla pedofilia, rischia l’impeachment per una criptovaluta, dice che il fascismo è anche socialismo, nega il diritto all’identità di genere e così via. Le frasi arrivano fredde, come in un film di fantascienza, come da un paese che non sembra più il mio.

Mentre leggo un elogio di Milei a Elon Musk, ricevo una foto da Franco Castiglioni. C’è una fila di uomini che dormono fuori da una libreria: «Corrientes e Callao, poco fa. Tremendo, sembra Calcutta», mi scrive.

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