‘Uccidere la natura’, il nuovo libro di Stefania Divertito: “Sono tempi in cui noi giornalisti dobbiamo prendere posizione, essere attivisti”

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Dal disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon, che nel 2010 sversò 868 milioni di litri di greggio nel golfo del Messico all’alta velocità che tra Firenze e Bologna ha fatto sparire quasi 60 chilometri di acqua; da tutti i bambini persi per sempre nella Terra dei fuochi all’Amazzonia soffocata dagli incendi, che tolgono aria anche dall’altra parte del Pianeta. Uccidere la natura è il nuovo libro – edito da Il Saggiatore – di Stefania Divertito, giornalista specializzata in tematiche ambientali che, tra le altre, ha firmato inchieste sull’uranio impoverito e sull’amianto. Ex portavoce del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa e capo ufficio stampa del ministero dell’Ambiente nei governi Conte I, II e in quello Draghi, nel suo ultimo lavoro racconta storie avvenute dall’altra parte del Pianeta, ma anche vissute in prima persona fin da quando era una bambina. Come l’esplosione del deposito Agip, la notte del 21 dicembre del 1985. Aveva 10 anni e viveva nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, Napoli Est. Il Natale era alle porte ma quell’esperienza cambiò per sempre la sua percezione del mondo. Sono storie di chi uccide la natura, ma anche di battaglie in sua difesa, come il lungo percorso per arrivare a un reato internazionale di ecocidio, non ancora introdotto nel diritto europeo.

Tutto partito da una notizia falsa…
Avevo letto che l’ecocidio era diventato un reato europeo e la notizia mi aveva subito catturata. Da sempre sono interessata alla giustizia climatica, perché sono nata in un Sin, il sito di interesse nazionale di San Giovanni a Teduccio. Il mio è un quartiere martoriato, degradato a causa delle raffinerie e della gestione dei prodotti petroliferi. Nonostante siano chiuse, la puzza ancora si sente. E poiché anni fa ho scritto un libro, ‘Toghe Verdi’ che parla delle battaglie ambientali in Italia, dal punto di vista degli avvocati di parte civile e dei magistrati, volevo capire come i casi di ‘Toghe Verdi’ sarebbero stati puniti alla luce del nuovo reato. Studiando, però, ho scoperto che l’ecocidio non è stato ancora introdotto a livello europeo, ma viene solo citato nel preambolo della nuova direttiva europea che aggiorna i crimini ambientali. Giuristi di tutto il mondo, però, stanno lavorando perché diventi un reato penale internazionale.

Si tratta di un reato che punisca non solo e non per forza chi reca danno all’essere umano, ma chi distrugge in modo grave e irreversibile un ecosistema.
Per sottolineare la necessità che questo rato abbia portata globale ho ricordato le vicende che ho approfondito negli anni per il mio lavoro, dalle deforestazioni in Amazzonia ai danni legati al fracking, la tecnica estrattiva che dagli Stati Uniti è arrivata, poco dopo il Duemila anche in Europa. Ad un certo punto, però, ho sentito che la mia stessa storia mi chiamava. Così ho voluto fare un link tra tutti questi racconti, perché fanno tutti parte di una battaglia comune per cui tanto può fare l’introduzione di questo reato a livello internazionale.

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L’ecocidio per lei “non è solo la ricerca di una compensazione per i danni causati dall’uomo, è anche l’occasione per riflettere sul rapporto interrotto, danneggiato, tra noi e l’ecosistema”. È un rapporto che si può ricucire?
Credo si possa lavorare tantissimo sulla frattura che si è creata tra l’uomo e la natura, partendo però dalle comunità, dai cittadini. Credo, ad esempio, che il grande tema del cambiamento climatico sia stato quasi completamente demandato ai giovani. Loro sono scesi in piazza, loro lottano, loro imbrattano. E noi li guardiamo, giudicando in modo positivo o negativo il loro operato, dicendo cosa dovrebbero fare. Ma questa è una lotta che deve riguardare tutti, comitati, gruppi di cittadini. Abbiamo parlato del fracking: questo riguarda l’utilizzo delle fonti fossili, il cambiamento climatico, la finanza globale, ma anche le case che sono ‘ingiuriate’ da quell’attività. Quindi non può non riguardare i cittadini che ne vengono danneggiati.

Attraverso gli elementi dell’acqua, del fuoco, della terra e dell’aria, il libro racconta vicende che hanno cambiato la storia per sempre, altre dimenticate. Ce n’è una che simboleggia più di ogni altra il rapporto interrotto tra l’uomo e la natura?
Quelle del fuoco e della deforestazione dell’Amazzonia, che è il nostro polmone. È come se decidessimo deliberatamente di asfissiarci. E la responsabilità non è solo di chi disbosca, chi uccide per poter allevare, trivellare e depauperare il territorio, ma anche chi acquista i prodotti che arrivano da allevamenti così ingranditi, da coltivazioni così prodotte. Da chi non è attento a ciò che consuma. I crimini che si stanno compiendo riguardano i popoli dell’Amazzonia, ma anche noi. E riguardano un presidente, Luiz Inácio Lula da Silva, che aveva dato una speranza, ma che non ha smesso di trivellare. E che ha recentemente portato il Brasile tra i Paesi dell’Opec+, il cartello dei Paesi produttori di petrolio.

E poi c’è il capitolo della Terra come veleno. Che parte con la descrizione di alcune foto, quelle che nel 2013 le mamme della Terra dei fuochi spedirono a Papa Francesco e al presidente della Repubblica.
Erano state tutte scattate nelle stanze dei loro bambini. Tutto era rimasto uguale, dalle trapunte sul letto ai pupazzi, solo che nelle camerette c’erano solo le mamme sopravvissute ai propri figli. Ancora non perdono chi ha detto che ci si ammalava per stili di vita. È stato il capitolo più difficile di tutti, l’ho riscritto diverse volte. Volevo far capire cosa c’è davvero dietro la ‘Terra dei fuochi’, ma temevo di sfruttare il dolore altrui. Spero di essere riuscita a raccontare quelle fotografie che ho nel cuore, con il rispetto che meritano quelle mamme.

Di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per quanto accaduto nella Terra dei fuochi. Quei bambini avranno mai giustizia?
No. Si può solo evitare che accada di nuovo. Bisogna bonificare, essere vigili e non restare in silenzio. Dobbiamo parlarne e non solo dopo e perché è arrivata la sentenza Cedu. A noi giornalisti insegnano ad essere equidistanti, ma questi sono tempi in cui può essere necessario, anche per noi, prendere posizione ed essere attivisti.



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