Gregorio Scribano smaschera il sistema previdenziale che ci condanna a lavorare fino a 70 anni

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Oggi abbiamo il piacere di intervistare il Dottor Gregorio Scribano, esperto di comunicazione e opinionista di lunga esperienza, che da anni analizza e commenta i fenomeni sociali e politici del nostro Paese. La sua capacità di leggere tra le righe della narrazione pubblica e di smascherare le retoriche vuote lo rende una delle voci più lucide e ascoltate nel panorama mediatico italiano. Con lui affrontiamo un tema scottante: il calo dell’aspettativa di vita in Europa e, in particolare, in Italia, e le ripercussioni su un sistema pensionistico sempre più in bilico.

Intervista

Dottor Scribano, lo studio pubblicato su The Lancet Public Health evidenzia come l’aspettativa di vita in Europa abbia smesso di crescere dal 2011 e, con la pandemia, abbia subito un brusco calo. Quanto dobbiamo preoccuparci di questi dati?

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Credo che dovremmo preoccuparci molto, non solo per il dato in sé, ma per ciò che esso rappresenta. Una società che non vede crescere l’aspettativa di vita è una società che sta fallendo nel garantire il benessere dei suoi cittadini. In Italia, poi, la situazione è ancora più grave: abbiamo una delle peggiori riduzioni della longevità e, anziché affrontare il problema alla radice, ci limitiamo a osservare i numeri come se fossero un fenomeno naturale e inevitabile.

L’Italia, tra l’altro, è uno dei Paesi più colpiti da questa inversione di tendenza. Quali sono, secondo lei, le cause principali?

Le cause sono molteplici, ma possiamo riassumerle in tre grandi fattori. Primo, il peggioramento complessivo della qualità della vita: stress cronico, inquinamento, precarietà economica e sociale. Secondo, un sistema sanitario che, dopo anni di tagli e cattiva gestione, non riesce più a garantire cure tempestive ed efficaci per tutti. Terzo, uno stile di vita sempre più insostenibile, fatto di lavoro incessante e poco tempo per la cura di sé e delle proprie relazioni. Il Covid ha solo accelerato un processo che era già in atto.

A proposito di lavoro: il dibattito sulle pensioni in Italia sembra muoversi in una direzione opposta rispetto alle esigenze dei cittadini. L’età pensionabile continua a salire, mentre l’aspettativa di vita cala. È un controsenso?

Non solo è un controsenso, ma è un’ingiustizia palese. Il sistema pensionistico italiano è stato costruito su un’illusione: l’idea che la popolazione potesse continuare a vivere sempre più a lungo, garantendo così un equilibrio tra contributi versati e pensioni erogate. Ma la realtà è diversa: oggi viviamo meno, in condizioni peggiori e, nel frattempo, ci viene chiesto di lavorare fino a 67 anni e oltre. È una ricetta perfetta per un disastro sociale.

Molti sostengono che il problema sia puramente economico: non ci sarebbero abbastanza risorse per abbassare l’età pensionabile e garantire assegni dignitosi. Lei cosa ne pensa?

È una scusa comoda. In Italia i soldi si trovano sempre per tutto, tranne che per ciò che è veramente importante. Sprechi, corruzione ed evasione fiscale drenano miliardi ogni anno, eppure ci viene detto che non ci sono fondi per garantire una pensione dignitosa a chi ha lavorato per tutta la vita. È una questione di priorità, e purtroppo i lavoratori non sono mai stati in cima alla lista delle preoccupazioni della classe politica.

Che cosa si potrebbe fare, concretamente, per migliorare la situazione?

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Prima di tutto, sarebbe necessario riportare l’età pensionabile almeno a 65 anni, permettendo ai lavoratori di godere di qualche anno di vita in condizioni dignitose. Poi, occorrerebbe garantire pensioni adeguate, senza il continuo ricatto dell’abbassamento degli assegni. Infine, servirebbe una seria riforma fiscale e della spesa pubblica, per reperire le risorse necessarie.

Un passo fondamentale sarebbe separare la previdenza dall’assistenza, facendone ricadere i costi – della cassa integrazione, delle pensioni sociali e d’invalidità, dei vari redditi di cittadinanza, di inclusione, di supporto per la formazione e il lavoro, ecc, ecc, – sulla fiscalità generale, anziché sui contributi previdenziali versati dai lavoratori nelle casse dell’INPS. Questo permetterebbe di preservare il sistema pensionistico senza gravarlo di spese che non dovrebbero ricadere su chi ha lavorato e versato contributi per decenni.

Ma tutto questo richiede una volontà politica che, al momento, sembra del tutto assente.

Ma perchè in questo paese i soldi si trovano per tutto e per tutti tranne che per aumentare gli stipendi e consentire ai lavoratori di andare in pensione ancora da vivi e con un assegno dignitoso?

La questione che solleva è centrale nel dibattito sulla sostenibilità economica e sociale dell’Italia. Ci sono diverse ragioni per cui le risorse pubbliche sembrano sempre disponibili per certe spese, ma mai per aumentare gli stipendi o garantire pensioni dignitose.

L’Italia ha un problema cronico di sprechi nella spesa pubblica, con miliardi di euro che vengono dispersi in inefficienze, consulenze inutili e opere incompiute. Inoltre, la corruzione e l’evasione fiscale sottraggono ogni anno enormi risorse che potrebbero essere investite per migliorare salari e pensioni.

Come già detto, attualmente, il sistema previdenziale è gravato da costi che non dovrebbero ricadere sulla previdenza: pensioni sociali, cassa integrazione e altre forme di assistenza vengono finanziate con i contributi dei lavoratori anziché con la fiscalità generale. Questo significa che le risorse versate dai lavoratori non vanno solo alle loro future pensioni, ma coprono anche spese che dovrebbero essere a carico dello Stato.

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Scelte politiche sbagliate?

Da decenni, la crescita economica dell’Italia è stagnante, e invece di incentivare produttività e innovazione, si è preferito puntare su misure di contenimento della spesa. Questo ha portato alla compressione dei salari reali e all’idea che il lavoro debba essere sempre più flessibile (cioè precario), anziché ben remunerato e stabile.

Le risorse pubbliche vengono spesso destinate a misure assistenziali, come il superbonus del 110 per cento, che, sebbene necessarie in alcuni casi, finiscono per premiare l’inattività piuttosto che il lavoro. Inoltre, si trovano sempre fondi per salvare banche, finanziare grandi opere inutili o garantire superstipendi a politici e manager pubblici, ma quando si tratta di lavoratori e pensionati, si parla di “sostenibilità del sistema”.

Quindi è una narrativa ingannevole quella del “non ci sono i soldi” per lavoratori e pensionati?

Da anni si martella con il concetto che “non ci sono soldi” per abbassare l’età pensionabile o aumentare gli stipendi, mentre si spendono miliardi per bonus a pioggia, incentivi a imprese che poi delocalizzano e spese militari in crescita. La realtà è che la distribuzione delle risorse è una questione di scelte politiche, non di impossibilità finanziaria.

Il problema non è la mancanza di soldi, ma il modo in cui vengono spesi. Finché la classe politica non metterà il benessere dei lavoratori al centro delle sue priorità, gli stipendi resteranno fermi e le pensioni sempre più un miraggio. Ecco perché è fondamentale che i cittadini facciano sentire la loro voce e pretendano un sistema più equo.

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Secondo lei, le nuove generazioni riusciranno mai ad andare in pensione?

Se non cambiamo rotta, difficilmente. I giovani oggi sanno che la pensione, per loro, è un miraggio. E questo genera un senso di sfiducia profondo, che mina la coesione sociale e il futuro stesso del Paese. Se continuiamo a trattare il lavoro come un sacrificio infinito e la pensione come un lusso, allora la vera domanda è: quale futuro stiamo costruendo?

In conclusione, qual è il messaggio che vorrebbe lanciare ai cittadini e alla classe politica?

Ai cittadini dico: non accettate passivamente questo stato di cose. Informatevi, protestate, fate sentire la vostra voce. Alla politica, invece, dico: smettetela di ignorare la realtà. Un Paese che condanna i suoi lavoratori a morire sul posto di lavoro è un Paese senza futuro. È tempo di mettere le persone al centro delle decisioni, non solo i numeri dei bilanci.





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