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Lo studio “Zaha Hadid Architects” è vincitori di uno dei più importanti concorsi (se non il più importante) per la città di Napoli e il suo prossimo destino urbanistico, economico e sociale: “La Porta ad Est di Napoli”.  Ma a Napoli siamo proprio degli incapaci? Sic et simpliciter sembrerebbe proprio di si seppure una prima lettura del progetto sembra più definire una visione estetico-formale che incidere in termini urbanistici e architettonici. Non mi sembra di vedere guizzi creativi o nuove soluzioni (se non quelle indicate dallo stesso bando). Poco evidente è l’espressione delle forme e delle funzioni che nella buona architettura generano l’assetto urbanistico e architettonico. La rappresentazione di un moderno “paravento di Napoli” raffigurato con la potenza della computer grafica? Meglio i lavori di Hollywood. L’impressione è che si dovesse operare maggiormente anche sulle connessioni con gli altri quartieri di Napoli, proponendo soluzioni che potessero fare da reale volano delle aree limitrofe come il Centro Direzionale di Napoli, forse ultima area interessata da un progetto “compiuto” capace di incidere sull’assetto globale urbanistico.




Va ricordato che pochi progetti hanno davvero ridisegnato il volto della città. In epoca moderna possiamo ricordare per incisività quello del “Risanamento di Napoli” operato nella seconda metà del secolo XIX. Nel 1885 il sindaco di allora, Nicola Amore (lo stesso che ordinò di sparare sugli operai di Pietrarsa e a cui abbiamo dedicato anche una piazza)), spinse e promosse la “Legge per il risanamento della città di Napoli”. Il 15 dicembre 1888 venne fondata la Società pel Risanamento di Napoli S.p.A. In seguito questa divenne la Risanamento S.p.A. Questa promosse una profonda rigenerazione urbana che celava però un fine più prosaico: una gigantesca speculazione immobiliare nei quartieri storici partenopei proposta come intervento di decongestione capace di risolvere i problemi igienico-sanitari della città. Occorre anche ricordare che la città era da poco uscita da una grande emergenza: l’epidemia di colera del 1884. Il tutto, tradotto in fatti, vide un primo sacco della città, con la distruzione -ma più spesso l’amputazione- di preesistenze di grande pregio architettonico e culturale. Tra gli assetti urbanistici ben identificabili va annoverato il corso Umberto I, ribattezzato dai napoletani come “il rettifilo”. Una gigantesca cicatrice che la giornalista Matilde Serao definì, a sua volta, nel suo romanzo “Il ventre di Napoli” come il “paravento di Napoli”. Un paravento che mal nascondeva le miserie di una città post-unitaria ove la politica aveva mostrato soltanto il suo lato peggiore e speculativo. Comunque il Risanamento fu almeno pianificato e discusso, e qualche orrore opportunamente evitato. 




Se analizziamo con occhi sufficientemente distaccati e spirito critico e attento tutta la storia della moderna Partenope, possiamo leggere lo sviluppo della città come il susseguirsi di emergenze che ci hanno costretto ad accontentarci di un presente di basso lignaggio nel nome della sopravvivenza. Quanto disturba è che accade ancora oggi. Chi può negare che il dopoguerra con le sue colate di cemento, non sia da ascrivere tra questi capitoli della storia? Eppure di intellettuali attenti e “preveggenti” ne abbiamo avuti a sufficienza e mai saremo abbastanza grati a uomini come Francesco e Massimo Rosi che ebbero il coraggio di denunciare “live” le cordate di imprenditori barbarici che hanno ferito senza alcun ritegno il tessuto urbano e il paesaggio di Napoli.


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Quanto però credo offenda ancor più, sono le opere imposte con un: “…almeno, rispetto a prima…”. Molti interventi oggi hanno continuato a seguire queste regole. È così che difatti vengono fatti passare interventi di bassa qualità, spesso privi di dignità architettonica, ma magari targati da qualche compiacente “archistar”. Interventi che nella sostanza non sono altro che discutibili operazioni di maquillage a prevalente vantaggio delle imprese assegnatarie dei lavori.


Eccovi dunque tre domande che mi pongo e vorrei condividere per arrivare ad una risposta onesta e più largamente condivisibile: 


1. Cosa significa fare architettura oggi? 

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2. Come si fa cultura nelle nostre città?


3. Esiste un’identità culturale?




Sembrano domande banali, ma non lo sono: sono semmai semplici…  Ho già qualche volta accennato alla mia sensazione che vede le pubbliche amministrazioni attingere al “catalogo on-line” dell’architettura.  Così si può pensare di acquistare “una fetta di cultura”. Troppo spesso più semplicemente mettendosi al riparo dalle critiche di una cultura egemone, mercificante e consumista. Ma non si nasconde così l’incapacità di produrre cultura. Ma prendersela con i soli amministratori politici non sarebbe giusto. La questione è più complessa. Difatti credo sia umano e comprensibile che un amministratore, in totale buona fede, voglia dare ai cittadini un’immagine precisa del suo operato. Il problema è che quello dovrebbe essere più attento ai suoi elettori e ricordare che anche gli architetti, gli ingegneri, e gli altri tecnici che vengono ostacolati da bandi e codici degli appalti completamente castranti e, a mio avviso, “sufficientemente” antidemocratici, sono suoi elettori o comunque cittadini di quei territori. Questi sono capaci solo di rendere la progettazione architettonica e urbanistica privilegio di gruppi economici che trovano terreno facile con il reale rischio che questi promuovano solo speculazione. Il codice degli appalti prescrive una serie di limitazioni in nome di una corresponsabilità economica affrontata tramite il “portafoglio” dei partecipanti o farraginose organizzazioni dei gruppi che in sintesi punisce gli architetti e gli ingegneri liberi professionisti: d’altra parte è giusto. Sono loro ad aver distrutto il “bel Paese”! O pensavate lo fossero stati la cattiva politica e le mafie? Le “regole” oggi finiscono per “blindare” la partecipazione ai concorsi più significativi a favore di ristretto gruppi, di fatto, egemoni. Perdonatemi ma quando vedo egemonia sento puzza di bruciato, fosse solo per l’appiattimento culturale, ma non solo.

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Napoli non è un “paesone”, è una città fortemente identitaria, nella sua essenza culturale ancora una capitale capace di produrre una classe professionale di altissimo livello.  Ma si è difronte a una “guerra tra poveri” e almeno gli intellettuali dovrebbero essere capaci di superare i propri interessi nel nome di una dignità professionale leggibile e ben più combattiva. 




Napoli “provincializzata”


Così, ancora oggi, siamo costretti a subire i risultati di un concorso fuori dal nostro contesto produttivo culturale. Eppure Napoli è una che città in vetta alle classifiche tra le città più amate dal turismo internazionale per la sua forte caratterizzazione che è frutto del lavoro dei napoletani: meriterebbe più attenzione e lungimiranza. Una città fatta di eccellenze e identità che dovrebbe avere la possibilità di esprimersi nel suo destino architettonico e urbanistico. Questa città appare molto distante dalla città della metà degli anni ’80 che ospitava il gotha dell’architettura mondiale. Ricordo seminari e mostre dove la cittadinanza poteva seguire e partecipare alle sorti della città in un processo culturale e politico. Ricordo gli incontri proposti da Uberto Siola per l’anniversario della creazione della Facoltà di Architettura di una grande Federico II. Come dimenticare, del Seminario Internazionale di Progettazione: Napoli – Architettura e Città diretto da U. Siola e V. Magnago Lampugnani? Il mio giudizio complessivo è pertanto prevalentemente negativo perché i risultati del concorso non mi sembrano esprimere l’identità della città. A mio avviso mostra una città “provincializzata”, priva di ina cultura architettonica dove mostrare come un “trofeo” un concorso che nei fatti allontana i napoletani dalla propria città. Perché non offrire invece l’utile occasione per “esporre una rassegna operativa” delle capacità dei suoi professionisti e non identifica invece una scelta troppo “elitaria” legata a prodotti “sempre buoni” e utili in “tutte le occasioni”, magari di cui discutere nel salotto buono di una intellighenzia stanca e incapace di offrire nuova linfa. Napoli meriterebbe di più. 


Non ho motivi per pensare male del concorso e dei suoi progetti. Tutto sarà stato condotto nella correttezza amministrativa. I risultati però oltre a non soddisfarmi non sembrano neanche possedere caratteristiche tali da apparire “unici” come questa città. I concorsi non devono essere più condotti così. Quelli che si spenderanno sono soldi dei cittadini e alla politica si chiede di più: un totale cambio di rotta. Queste modalità, scelte programmatiche, codice degli appalti finiscono per lasciare in panchina generazioni di architetti a discapito della qualità delle nostre città. La libera professione sembra ormai confinata a svolgere ruoli marginali, oppressa tra burocrazia selvaggia e grandi responsabilità per inutili carteggi. La “vera professione” diviene prerogativa di quanti sono impiegati delle pubbliche amministrazioni o nei “grandi” studi di progettazione. Ma la ricchezza di un Paese democratico non andava redistribuita attraverso la meritocrazia? In questo modo i giovani architetti non vedranno mai realizzate le loro idee. Mi chiedo se queste modalità non producano il serio rischio di creare una classe professionale che per sopravvivere e ricevere qualche commessa deve affollare le corti dei nuovi “signori” creando una pletora di questuanti clientelari? Nella pratica il contrario di quanto il codice degli appalti e le altre norme prevedevano per aumentare la trasparenza amministrativa.  

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Nello specifico del concorso sulla “porta est di Napoli”, credo sia lecito aspettare ulteriori informazioni per approfondire i progetti e i risultati. Posso chiedermi, visto che Zaha Hadid è morta quasi 10 anni fa (2016), di chi o cosa sia realmente il progetto? Non siamo più di fronte ad una grande architetta, ma ad uno studio di architettura che ne segue gli insegnamenti. Ovviamente l’idea di “studio di architettura” resta ancorata alle proprie convinzioni intellettuali. Qual è la giusta visione che ci permetta di non perdere tensione intellettuale in termini di “carattere” a favore di vuoti stilismi? Tema è davvero interessante che ci pone dinanzi a considerazioni più ampie circa il destino della società, perché l’architettura ha il compito non solo di rappresentarla ma anche di spingerla oltre. Almeno così mi avevano insegnato.






















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