Referendum sul Jobs Act, perché non è vero che la riforma renziana “ha creato 1 milione di posti di lavoro” e cosa cambia se vince il Sì

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 


La Corte costituzionale ha ammesso il referendum per abrogare il cuore del Jobs Act e la riforma del lavoro del 2015 è tornata in cima all’agenda del dibattito politico. Anche questa volta non risparmiato dalle teorie fantasiose e dai numeri a casaccio lanciati dai sostenitori della stagione politica che vide protagonista Matteo Renzi e il suo governo. Il capogruppo di Italia Viva al Senato Enrico Borghi, per esempio, ha riesumato la storia del presunto milione di posti di lavoro creato “grazie al Jobs Act”, condita da un ulteriore dato errato secondo cui più della metà di questi rapporti sarebbero “a tempo indeterminato”. Vediamo cosa dicono i dati. E che cosa cambierebbe in caso di vittoria del Sì.

Cosa dicono i dati – Partiamo dai numeri reali facilmente riscontrabili dalle banche dati Istat: tra il 2015, cioè l’anno di approvazione del Jobs Act, e il 2018, gli occupati dipendenti in Italia sono in effetti aumentati di poco più di un milione, ma solo grazie a una fase economica favorevole grazie alla fine della recessione e alle politiche monetarie espansive della Banca centrale europea. Non è quindi merito di una riforma che ha ridotto le tutele in caso di licenziamento illegittimo. Lo dimostra il fatto che l’incremento di occupati era in atto già da un anno prima della sua approvazione. Inoltre, il 65% di quell’aumento è passato per contratti precari. Quelli a tempo indeterminato erano solo il 35%, non “più della metà” come afferma Borghi.

Le sentenze della Consulta – Quello che è successo dopo il 2018 non ha legami diretti con il Jobs Act, perché a partire dall’autunno di quell’anno la riforma renziana – di cui fa parte integrante il decreto Poletti arrivato nel 2014 – ha subito una serie di modifiche più o meno consistenti. A settembre 2018, infatti, la Corte costituzionale ha smontato il contratto a tutele crescenti, principale creatura del Jobs Act. È stato dichiarato incostituzionale il sistema previsto dal governo Renzi per quantificare in modo automatico i risarcimenti in caso di licenziamento ingiusto, tutela ritenuta troppo debole per i lavoratori: la Consulta ha quindi previsto che il giudice debba tenere in considerazione vari fattori nel determinare l’indennizzo al lavoratore licenziato, non solo l’anzianità presso l’azienda. A novembre 2018, poi, è entrato effettivamente in vigore il decreto dignità, voluto dal Movimento Cinque Stelle con il governo Conte I, che ha aumentato le indennità previste per i lavoratori licenziati e reso più stringenti i vincoli per i contratti a tempo determinato.

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Un dato con cui i renziani fanno fatica a fare i conti è questo: il Jobs Act ha subito una serie di sonore bocciature dalla Corte costituzionale e, in un caso, dal Comitato europeo per i diritti sociali. Le “tutele” previste per i lavoratori sono state giudicate troppo deboli e sproporzionate a favore delle imprese. In altri casi, sebbene Italia Viva e qualche pezzo del Pd parlino ancora di grande riforma, le norme a volte sono state bocciate in quanto mal scritte, pasticciate e incoerenti.

Che cosa resta – Allora perché la Cgil ha chiesto e ottenuto un referendum? Il motivo è che, nonostante le sentenze, resta intatta la norma che in caso di licenziamento illegittimo, sia esso disciplinare o economico, non prevede il diritto del lavoratore a essere reintegrato ma solo l’indennizzo. La riforma, infatti, ha mantenuto la tutela della reintegra solo nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o completamente pretestuoso, cioè quando la giusta causa è del tutto inventata dall’azienda. Le sentenze della Corte costituzionale hanno agito prevalentemente sul metodo per quantificare i risarcimenti ma non hanno reintrodotto il diritto a essere reintegrati, tranne che in casi particolari (per esempio estendendo il diritto in tutti i casi di nullità e non solo in quelli “espressamente previsti dalla legge”).

Cosa cambia se vince il Sì – Se dovesse vincere il Sì al referendum, sarebbe quindi abrogato l’intero decreto legislativo che ha abolito definitivamente l’articolo 18 per gli assunti dopo il 7 marzo 2015. Sul piano politico, sarebbe un colpo importante: il governo non potrebbe che prendere atto della volontà popolare di tornare al diritto alla reintegrazione per chi viene ingiustamente licenziato. Sul piano tecnico, invece, l’effetto immediato sarebbe complesso, perché si tornerebbe alla disciplina precedente al Jobs Act, che con la riforma Fornero aveva già comunque ridotto il diritto alla reintegrazione in diversi casi di licenziamento, tant’è che in questi anni nei Tribunali abbiamo assistito a una complessa opera di interpretazione delle norme.

Sicuramente un effetto pratico molto importante si avrebbe sui licenziamenti collettivi: per questi il Jobs Act non prevede mai diritto alla reintegrazione, a differenza della Fornero che la prevede in alcune fattispecie. Sui licenziamenti individuali, il confine tra Fornero e Jobs Act si è invece rivelato più complicato, considerando che la riforma del governo Monti è ancora applicata a tutti gli assunti prima del 7 marzo 2015. In ogni caso, dopo la vittoria del referendum la Cgil ha intenzione di colmare il vuoto attraverso una legge di iniziativa popolare che prevede il diritto alla reintegrazione per licenziamento ingiusto in tutte le imprese, anche in quelle sotto i 15 dipendenti.

Ci sono poi gli altri tre quesiti. Il primo riguarda proprio le tutele per i licenziamenti ingiusti nelle piccole aziende. In quelle con meno di 15 dipendenti, infatti, oggi è prevista l’alternativa tra la riassunzione e l’indennizzo tra una e sei mensilità, che può essere aumentato a seconda dell’anzianità del lavoratore. Il referendum Cgil propone di abolire questo limite massimo, quindi lasciare discrezionalità al giudice.
Il terzo quesito riguarda i contratti a tempo determinato: oggi non è previsto l’obbligo di causale per i rapporti di durata inferiore ai dodici mesi; la Cgil propone di abrogare questa norma e quindi obbligare sempre la causale.

Infine, il quarto quesito riguarda il mondo degli appalti e propone di cancellare la norma che esenta l’azienda committente dalla responsabilità per gli infortuni che avvengono nelle aziende appaltatrici quando l’evento che ha scatenato l’incidente è conseguenza del “rischio specifico” dell’attività della stessa azienda appaltatrice. In pratica, il sindacato vorrebbe che la responsabilità dell’impresa committente sia prevista sempre.

Pur trattandosi di norme non approvate dal governo Meloni, un eventuale raggiungimento del quorum suonerebbe come un durissimo colpo all’attuale maggioranza di centrodestra.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link