I ricchi ci battono facile. L’arrampicata sociale dei poveri finisce nel burrone (di Gioacchino Criaco)



I ricchi ci battono facile
L’arrampicata sociale dei poveri finisce nel burrone

dalla pagina FB di Gioacchino Criaco

Avvantaggiati dal tenere i cordoni della borsa: dal controllo ferreo dei beni, dell’informazione, delle espressioni culturali, di quelle ludiche. I ricchi.
I governi si succedono per termini che si chiamano spread, indici finanziari. Smantellano sistemi sanitari, garanzie lavorative, coperture sociali -sono troppo onerosi per loro, abituano i poveri ai diritti-.
In un paradosso distopico, la quotidianità istituzionale si realizza attraverso la cancellazione del reddito di cittadinanza, il rimandare a casa i profughi che, in termini reali, è lotta ai poveri.
Si attaccano i poveri, non la povertà.
Perché la povertà è il motore dei modelli economici dominanti: la povertà costringe a servire.

Il paradosso al suo colmo: i poveri si rivolgono con odio verso quelli più poveri e con amore invidioso verso la ricchezza che crea povertà. Una tempesta perfetta che in mafiologia è l’incaprettamento: più la vittima si agita più si auto strangola, perché il nemico è la corda, non chi ha costruito il marchingegno. Tutti vorrebbero slegarsi per legare altri, far parte dei legatori, insomma.

La vittoria è facile perché non si mette in discussione il meccanismo, ma solo la sua ingiustizia rispetto al me, al noi, ma mai rispetto al loro, al tutti.
Così è possibile che una speculazione, senza basi reali, porti alle stelle i costi energetici e i governi invece di levare il maltolto ai manigoldi, pagano(a un certo punto quando i singoli sono al collasso) con i fondi statali, come a dire: con i soldi di tutti, da una cassa comune che tutti poi dovranno rimpinguare. Lo stesso meccanismo con cui si dispongono i fondi alle banche fallite per risarcire i truffati.

I ricchi vincono facile perché posseggono tutti i mezzi per rincoglionire i poveri e i poveri sono talmente rincoglioniti che nemmeno la vedono la beffa e continuano a stringersi la corda intorno al collo.

I poveri non hanno ragioni perché nemmeno le ragioni migliori esistono se non se ne parla. Se ne possono avere di importantissime ma se non sono il cuore di un dibattito diffuso non hanno valore. Il dibattito lo crea l’accesso ai mezzi di informazione e l’accesso è una delle forme più prepotenti della ricchezza.

I poveri sono veramente poveri quando svanisce il diritto di parlare delle loro condizioni.
Esistono ragioni minuscole che assumono un’importanza straordinaria in quanto animate da un’informazione in possesso di, e non esistono ragioni maiuscole perché i padroni della visibilità le ignorano.
In Italia esistono 12.000.000 di poveri, ma non ci stanno veramente, ci fossero davvero non si dovrebbe parlare d’altro. Poiché non ci sono, argomenti meno nobili reggono la scena.
I poveri hanno poi il vizio di starsene lontani dal centro, scelgono le periferie: nascono e crescono al Sud e poi partono per un Nord qualunque, ad alleviare, in silenzio, i propri bisogni.
Per notarli bisogna farci caso. Bisogna, ad esempio, abitare in posti che abbiano l’affaccio su una qualunque statale. Se hai la fortuna di un affaccio sulla 106 Jonica, con gli occhi ti sazi di un mare che il cielo colora di cobalto, sorvoli piane sincopate, cimiteri di ulivi e agrumi che un tempo devono essere stati covi di vita rigogliosa, inciampi su monti verdissimi che si alzano di botto e diffondono un senso di frescura refrigerante, anche d’inverno. Pieno di regali divini, rattristito dalla ricchezza dissipata, torni alla Statale e conti le corse duplicate, triplicate… quintuplicate, delle compagnie di corriere che si muovono in risalita.
Questa è una povertà muta.

I poveri stanno stipati in silenzio, uno, due, tre, quattro per famiglia. Nemmeno con se stessi lo ammettono di essere poveri.
La povertà continua a essere considerata una vergogna. 115.000 famiglie calabresi sono povere, 4-500 mila persone, un terzo dei calabresi, un altro terzo è in mezzo al guado. Questa è la verità su una Regione che, velocemente, corre verso l’estinzione, la fine per spopolamento, oltre ai poveri vanno via pure i figli dei meno poveri. Un dibattito invisibile, che batte un colpo di tanto in tanto, poi svanisce per lasciare il posto alle operazioni antimafia, ai processi, che magari, in gran parte derivano da decenni di povertà, che forse hanno la linfa sostitutiva per le basse leve criminali in un sistema di arretratezza materiale, madre e padre delle devianze. Siccome sono le devianze a tenere banco: il crimine esiste, la povertà no. Ed è per questo che noi del Sud continueremo a essere criminali, ma non poveri.

Nessuno odia i poveri più dei poveri. Accade così spesso da divenire regola, più che consuetudine di costume riveste i profili di un disturbo psichiatrico, studiato poco però, senza che nessuno abbia in mente di curarlo.
Esempio plastico: lo schiavo promosso a sorvegliante e armato che diventa il più solerte nel comprimere la rivolta dei neri (in Via Col Vento).
I detenuti promossi ad aiutanti nei campi di lavoro.
Il povero che potendo aver esaudito un desiderio chiede la morte del cane del vicino.
Ci si assimila sempre a chi sta sopra e si odia chi ci sta sotto per esorcizzare la paura di uno sprofondo che inevitabilmente arriverà.

Pochi, pochissimi, comprendono la disperazione di migliaia di famiglie a cui è stata tolta la sopravvivenza con un messaggino. I più ne godono. E nemmeno i sofferenti diretti sono pronti a fare le barricate per difendersi.
In fondo la povertà è stata degradata a vergogna, un disonore da nascondere.
Magari gli impoveriti estivi, sentiti a parere, invece di inveire contro chi li priva della sussistenza, si scaglierebbero contro chi è ancora più sotto di loro, categoria al momento personificata dai migranti.
È una malattia a scagliare pietre verso, solo, il basso. Nessuno che lanci almeno uno sputo in faccia a chi sta sopra.

L’arrampicata sociale è finita nel burrone: se un melone costa 7, 98 euro e si hanno un paio di bambini lo mangiano in una volta. Ovvio, non dappertutto i prezzi sono quelli di Milano, ma sono comunque alti, troppo alti per sempre più persone. E sempre più persone spariranno dai ristoranti, dalle villeggiature, dai cinema, dalle palestre. Certo, si può vivere facendo a meno di tante cose, si può restringere il campo limitandolo ai bisogni insopprimibili.

Ma non era questa la promessa. C’era una promessa di benessere diffuso, mantenuta con riguardo a chi ha molti anni, a chi veniva da condizioni di povertà che si pensava sarebbero sparite per sempre. Per quelli nati di recente, il patto sociale aveva promesso condizioni migliori, conquiste ormai date per scontate. Invece, per molti, torna il tempo delle rinunce. Si aprono vuoti per larghe fette sociali. Vuoti resi invisibili da tante fasce che ancora possono accedere a un benessere minimo.
La povertà è resa vergogna, viene accuratamente nascosta. La gente riempie gli spazi dando l’impressione dell’inesistenza della povertà. Ma la povertà avanza, più avanza e più si nasconde. Il mondo si divide fra chi ancora può, e appare, e chi non può più, e si nasconde.

Era stata promessa un’arrampicata sociale e per i più che ci hanno creduto, per i meno performanti, i meno competitivi, i più lenti, tutto si dirige verso la caduta.
La scoperta finale è che i poveri non sono buoni: sono rancorosi, invidiosi, stanno sempre a lamentarsi, a dare la colpa a qualcun altro. Se la prendono con chi si dà da fare, chi si impegna a forza di sacrifici, ce l’hanno contro i riusciti.
Colpe, i poveri, ne hanno davvero tante: sono maggioranza assoluta nel mondo, per numero, eppure non contano nulla, questa è responsabilità loro, vera non la convinzione, e la conclamazione, che la povertà sia una colpa. Un peccato da punire.
Il problema italiano sono i poveri, i lavoratori recalcitranti, i migranti che si rifiutano di fare la fila legale.
Gli intralci alla felicità sono gli svantaggiati, senza di loro si avrebbe una società riuscita, più presentabile pure.
I poveri buoni sono quelli da “riscatto”, le esistenze esemplari che col sacrificio personale in una società che prevede dei percorsi di superamento delle barriere sociali, riescono.
Binari, però, dentro cui si deve stare. Il riscatto da cosa? Si potrebbe dire. Da quale peccato originale?
La povertà è una prassi convenzionale in un modello che si fonda sulle differenze: fra servire ed essere serviti.
Se ti “riscatti”, devi ringraziare, occultando, magari, l’accento terrone, mai dimenticando, comunque, di essere nero. Che se non si santifica e si ringrazia il sistema che ti concede lo scatto sociale, si ritorna alla casella iniziale, in un eterno gioco dell’oca.

Resistenza Aspromontana: la foto è di Antonello Scotti



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