Ravera e Farinelli, vite parallele di donne

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Prendo l’abbrivio da due autobiografie appena uscite per affrontare un compito che non dovrei svolgere perché non è il mio: quello di critica letteraria. Dal momento però che sono due romanzi/saggi che trattano ognuno di una vita reale, come tali anche io li tratterò:

Lidia Ravera, Volevo essere un uomo, Einaudi, 2025, pp. 142

Arianna Farinelli, Storia di una brava ragazza, Einaudi, 2025, pp. 202.

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Sono romanzi/saggi autobiografici di un genere particolare; raccontano vite, vite di donne, vite di donne in quanto donne. In entrambi l’autobiografia passa dagli «occhiali di gender», una cosa che gli uomini non fanno mai. Gli uomini che scrivono di sè lo fanno in quanto persone, esseri umani, rappresentanti dell’umanità in generale. Con qualche eccezione recente, per esempio Francesco Piccolo. Anche alcune donne l’hanno fatto e lo fanno. Sempre più spesso però oggi, sull’onda della consapevolezza femminista, alcune donne raccontano di sè notando e facendo notare quello che loro è successo o che esse stesse hanno fatto perché erano, sono donne, e soprattutto sanno di esserlo, nel senso che sanno benissimo che fai e ti vengono fatte certe cose non perché sei un essere umano ma perché sei una donna. Dopo questo preambolo, affronto i due saggi/romanzi autobiografici interpretandoli come vite parallele, tra di loro e alla mia.

Vite di Ravera e Rigotti

La prima vita, cronologicamente perfettamente parallela alla mia, è quella della scrittrice, saggista, giornalista etc. Lidia Ravera. Perfettamente parallela perché siamo nate lo stesso giorno dello stesso anno, lei a Torino io a Milano, e abbiamo vissuto vite abbastanza simili per le posizioni politiche adottate e per l’impegno nella scrittura (lei ha pubblicato più di trenta romanzi, io più di trenta saggi), fino a occuparci entrambe del tema della vecchiaia delle donne, lei con Age pride, io con De senectute, stessa casa editrice. Ci hanno anche invitate alla Radiotelevisione svizzera a una trasmissione su questo tema e lì ci siamo conosciute di persona. Poi lei è molto più nota e prominente di me ma io non sono mica invidiosa anzi. Certo che questa e altre coincidenze sono abbastanza sbalorditive. Meno lo sono altre coincidenze della nostra lunga vita di donne che si sono viste trattare, come donne, in maniera particolare, praticamente sempre svantaggiate da quella nascita che ti inchiodava a essere femmina. E invece tu (lei, io)

volevi essere un maschio per far contenta tua madre,

volevi essere un ragazzo per rimorchiare invece di essere rimorchiata.

Volevi essere un uomo per non dover nascondere il tuo talento, il senso dell’umorismo, l’ambizione.

Vorresti essere un vecchio per non dover chiedere scusa, se ti va di vivere al di là della funzione concordata. Ornamentale. Riproduttiva. (dall’epigrafe del libro di Ravera, ho cambiato la prima persona nella seconda per motivi di esposizione e per generalizzare ancor di più).

Vite di Farinelli, Ravera, Rigotti

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Lidia Ravera nasce seconda figlia femmina, è lì che comincia tutto. Perché, come ben so (ovviamente sono anche io seconda figlia femmina), la prima, vada perché è la prima, ma la seconda…

Arianna Farinelli, scrittrice e scienziata politica, che entri in scena anche lei, nasce un quarto di secolo dopo di noi (nel 1975) a Roma, in una borgata popolare. È la prima femmina, le va ancora bene, poi le nascono due fratellini, la famiglia è gratificata. In più nasce quasi venticinque anni dopo, ragion per cui, pensi, le sarà andata meglio, per poi accorgerti che la faccenda non è così scontata. Si verificano inoltre strani scarti temporali, per cui scopri che chiedere una pausa per tirarti il latte durante gli esami finali è visto malissimo negli Stati Uniti (a lei), mentre vent’anni prima per me chiedere di poter allattare la mia seconda figlia (che stava in un’altra stanza con padre e fratellino) spezzando in due la seduta di dottorato non è un problema (all’Istituto Universitario Europeo, una enclave europea in territorio italiano).

Vite di Ravera, Rigotti, Farinelli, Ravera

Torno ai miei parallelismi con Ravera, soprattutto durante l’infanzia e la prima giovinezza: a lei piacevano i soldatini ma riceveva bambole (io amavo le macchinine e ricevevo pentolini); a Carnevale la sorella è vestita da damina e lei da cow boy (anch’io, mia sorella da damina e io da indiano, ci sono ancora foto e disegni che lo testimoniano!). Poi per entrambe l’esperienza del ’68 a 17 anni, tra gli «studenti medi», l’ingresso nella sinistra, e la casa di ringhiera, e il lavoro che ti placa. E poi anche le divergenze, il passare ore a truccarsi, pettinarsi, vestirsi (lei) e io continuare imperterrita a indossare i calzettoni e ignorare creme e belletti e a preferire la vita rustica degli scouts (anzi degli scouts femmine di allora, le guide).

Anche Farinelli si rende conto di non avere parole, come noi ragazze del ‘68; di doversi scusare per avere un’opinione perché femmina, e lo scopre molto dopo, negli Stati Uniti, dove viveva dall’età di vent’anni. Dai trenta io vivevo in Germania, che nella mia esperienza era, è, con le donne, molto più civile e paritaria dell’Italia, anche se c’era chi si stupiva, come negli Usa per Farinelli, che portassi il «mio» cognome.

Ravera non porta il marchio a fuoco dell’emigrazione (così lo definisce Rosi Braidotti, finita ragazzina in Australia, che è uscita anche lei da poco con un’autobiografia da donna per Castelvecchi, scusa Rosi non ti ho ancora letta: Rosi Braidotti, Fuori sede. Vita allegra di una femminista nomade, Roma, Castelvecchi, 2024). Forse tuttavia Ravera capisce meglio di noi che vorresti essere un uomo «perché preferisci l’autentico alle imitazioni, perché così la vita è più semplice, per non sentirti né corteggiata né rifiutata ma rispettata».

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Della mia, di vita, in tre paia di scarpe, italiane, tedesche e svizzere, dove mi sono sentita e mi sento più a mio agio è in Svizzera, forse perché lì non «vivevo» ma lavoravo e basta. Insegnavo sì, ma pendolando e soggiornando in albergo. Non avevo casa né famiglia, i miei figli non erano andati lì a scuola. In Svizzera ero solo il mio lavoro, ero una docente universitaria e questo faceva sì che come tale venissi trattata, senza quello sguardo di gender posato sulle tue spalle che ti annienta.

Vita di Farinelli

Farinelli subisce il durissimo colpo della separazione dal marito americano che si allontana per un’altra donna più giovane dopo quasi vent’anni, arrivando lei a scoprire che lui aveva preso in affitto un appartamento di fronte all’ufficio, dove incontrava le amanti. (Non racconto per pietà che cosa scoprii io del mio marito italiano, sposato nel 1975, militante del PCI, giovane professore universitario e promettente storico). Molto di quello che Farinelli ha vissuto come donna continua ad accadere, conclude, e credo che Ravera e io potremmo sottoscrivere ampiamente. Tutte abbiamo provato, noi mezzo secolo prima, a sedere con una decina di donne e ad ascoltare con sgomento le storie che «cadranno loro dalle labbra» (rapporti sessuali non voluti, incontri con esibizionisti e guardoni, complimenti, osservazioni e palpeggiamenti indesiderati…).

Vite di Farinelli, Ravera, Rigotti, tutte insieme appassionatamente a danzare «la danza delle api»

Molte cose continuano ad accadere, eppure in parte il mondo di Farinelli è cambiato rispetto al nostro: le sue descrizioni dell’infanzia, della giovinezza, della maturità non collimano con le mie né, azzardo, con quelle di Ravera. Una parte la gioca il contesto sociale, l’essere stata lei una ragazza di periferia e aver parlato e ascoltato fuori e in casa il dialetto romanesco, la parlata turpe, rozza e volgare, mai pacata e sottovoce ma sempre a base di urla ed esclamazioni, che ancora caratterizza l’attuale presidentessa del consiglio. In parte è l’essere cresciuta nel berlusconismo, che noi abbiamo affrontato grandi abbastanza e sufficientemente attrezzate per riconoscerlo e rendersi conto che quelli che lanciava erano soltanto abbagli.

E poi noi del ’51 ci sentivamo quasi eroiche per aver «fatto il ’68» ed esserci impegnate a criticare il mondo e a volerlo cambiare, e quell’aura, uomini e donne, ce la portiamo dietro.

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Quelli e quelle del ’75 invece si sentono altrimenti, spiega a Farinelli un amico italiano: «Siamo una generazione di cacasotto, buoni a nulla, che non hanno mai combattuto per una causa, per un ideale»… e anche tu Arianna sei diventata «a Manhattan una borghese riccona del cazzo». Questo per maschi e fammine, ma ancora una volta soltanto per le femmine vale il continuare a guardarsi con gli occhi di chi ti guarda, trappola terribile da cui occorre uscirre, magari, conclude Farinelli il suo libro, e io il mio pezzo per Doppiozero. con la danza, la danza delle api «che indica dove è il nettare»



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