Beni comuni e “protezionismo ecologico” per il futuro dell’Africa. La ricetta di Kako Nabukpo

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Kako Nabukpo, economista togolese, già ministro della Prospettiva e Valutazione delle politiche pubbliche in Togo e  commissario per l’Agricoltura dell’Unione monetaria ed economica ovest-africana (Uemoa), è noto per le sue critiche al franco Cfa, la valuta condivisa dagli otto paesi membri dell’Uemoa.

In questa intervista, Nabukpo tocca i punti più salienti del suo terzo e ultimo libro pubblicato in Francia lo scorso autunno da Odile Jacob, L’Afrique et le reste du monde – De la dépendance à la souveraineté: protezionismo ecologico e beni comuni, democrazia endogena, approccio da adottare sulle politiche anti-migratorie europee, sostituzione del franco Cfa.

Riguardo a “L’Africa e il resto del mondo” lei propone una “terza via” per il continente che ruota attorno al concetto declinato di sovranità, di protezionismo ecologico e di beni comuni… Come si articola tale modello?

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La sovranità è declinata in alimentare, monetaria, industriale… Si potrebbe definire come autonomia strategica. Per me, sovranità significa la capacità di essere potenzialmente autosufficienti in caso di necessità. Prendiamo l’esempio dell’alimentazione. Nel 1989, la Banca Mondiale produsse un rapporto in cui si diceva ai paesi africani che tutto ciò di cui avevano bisogno era una quantità di valuta estera sufficiente per importare il cibo, e che non era necessario produrlo. Poi, nel 1996, i movimenti di coordinazione contadina hanno ricordato il fatto che era normale produrre ciò che si consuma; da qui il passaggio da sicurezza a sovranità alimentare.

Kako Napukpo

Come si coniuga con un contesto che rimane globale e connesso?

Il sottotitolo del mio libro doveva essere “dalla dipendenza alle interdipendenze”: ovvero passare da qualcosa di patito a qualcosa di co-costruito con il resto del mondo. L’idea sarebbe di produrre i beni rispetto ai quali si è competitivi, e importare dai propri vicini, o da altri, quelli rispetto ai quali essi sono competitivi; restando, però, potenzialmente capaci di fornire alla propria popolazione tutti i beni essenziali in caso di necessità (come la chiusura dei confini). In breve, si tratta della teoria dei vantaggi comparativi dell’economia classica; che però pone problemi. Va aggiunto il fatto che i beni esportati non possano essere solo materie prime, ma soprattutto beni trasformati, con un maggiore valore aggiunto, il che non è il caso in molti paesi africani. O prendiamo il progetto della zona di libero scambio africana: è problematico il fatto che sia pensata direttamente in un contesto globale, rendendo l’Africa terreno per le multinazionali; o che metta su uno stesso piano dei paesi con economie estremamente diverse – ad esempio, Marocco e Burundi. Il progetto dovrebbe porre sin dall’inizio la questione di trasferimenti di budget tra paesi africani, basato su compensazioni e sviluppo delle capacità. Aggiungo che i promotori della zona di libero scambio non propongono un modello conseguente, al livello globale, per quel che riguarda la libertà di circolazione delle persone: ciò significherebbe facilitare l’erogazione di visti ai cittadini africani. Dato che la prima conseguenza al libero mercato è l’emigrazione – irregolare – verso i paesi più competitivi.

Si legge nella sua analisi l’apprensione per le diseguaglianze economiche intra ed extra-africane, che portano a formulare, come soluzione, la sua idea di “protezionismo ecologico”…

Il mio protezionismo, che chiamo ecologico, mi permette di riallacciarmi con una forma di stato sociale. La domanda fondamentale è come produrre, e che fare del surplus legato alla produzione. Ribadisco che in Africa, l’assenza di protezione dai mercati internazionali significa emigrazione, che segue il flusso delle materie prime. L’obiettivo finale dei paesi africani dovrebbe essere quello di una globalizzazione equilibrata, e le modalità di inserimento in tale sistema. Quindi per me il protezionismo è quel periodo durante il quale si costruiscono i rapporti che mi permetteranno, domani, di stare nella globalizzazione. E aggiungo ecologico dato che, per ora, il saccheggio estero delle materie prime passa anche dalla distruzione degli ecosistemi – la foresta del Congo, secondo polmone verde del pianeta, ne è un esempio.

Pensa che il discorso sui migranti economici che arrivano in Europa sia un po’ esagerato rispetto alle sue effettive proporzioni? Ad esempio, comparando i numeri con le migrazioni intra-africane.

Oggi il discorso europeo mette in pericolo le vite dei migranti. È un problema sicuramente legato al razzismo; senza dimenticare che anche gli asiatici e gli africani stessi sono razzisti. Ciononostante, la retorica politica che alimenta la paura di un’invasione migratoria in Europa funziona. Su questo gli africani devono dare prova di pragmatismo, se non di cinismo, e accogliere i flussi di aiuti allo sviluppo e finanziamenti proposti dall’Europa. Io non ho nessun problema morale su questo. Dal momento in cui l’Ue – o i governi europei, come quello italiano – sono disposti a mettere dei miliardi per, in realtà, «bloccare» le ondate migratorie, ovvero per ragioni che sembrano sbagliate, è nostro dovere stare al gioco e convincerla a farlo, destinando i soldi a educazione, formazione, creazione di attività sul continente africano. Questo comprende anche gli aiuti allo sviluppo, che rimangono di enorme sostegno sul breve termine, per questo rappresentano un grave problema i recenti tagli da parte della Francia (Afd) e di altri paesi europei, per non parlare di quello che sta succedendo con Usaid sotto attacco di Trump.

Torniamo all’idea di “terza via”: lei è un fautore della democrazia endogena, ovvero una posizione pro-democratica ma non occidentalista – per quanto la democrazia possa ancora essere di tendenza in Occidente…

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Nel mio libro, ricordo le forme di governance tradizionali africane, sostenendo che è assurdo pensare che la democrazia sia un prodotto puramente importato dall’Occidente. Poi, l’insistenza dal lato occidentale per l’adozione di pratiche di governance non particolarmente consone al contesto africano pone ovviamente dei problemi. Ciononostante, spesso sono gli africani stessi a strumentalizzare il dibattito sulla democrazia, facendo come se fosse un oggetto alieno all’Africa, cosa che non è. Prendi la Carta Manden, un insieme di norme concepito dall’impero mandingo del XIII secolo: difendeva i diritti umani. Oggi, penso che la cosa più importante sia la legittimità democratica delle nostre istituzioni, tramite l’inclusione di pratiche provenienti dalle comunità di base. E qui si delinea ciò che chiamo la “terza via” per i beni comuni: la mobilitazione di pratiche tradizionali e popolari di governance per risolvere delle questioni di base. Come, ad esempio, i conflitti legati alla transumanza, tra pastori nomadi e agricoltori sedentari. Pratiche legate, dunque, a una pluralità del diritto, diverso da quello di matrice occidentale prodotto dalla colonizzazione.

Qual è la sua posizione sul franco Cfa?

Osservo un equilibrio per non avanzare; si chiama, in gergo economico, “equilibrio dei codardi”. Ovvero nessuno ha interesse a deviare unilateralmente dalla situazione iniziale. Nel caso del possibile sviluppo e superamento del franco Cfa, con il progetto dell’eco, la nuova valuta comune ai 15 paesi membri della Cedeao (15 considerando anche Niger, Mali e Burkina Faso, che nel frattempo hanno annunciato la loro uscita, e la Guinea-Conakry che al momento è sospesa, ndr), tale equilibrio è mantenuto principalmente da due controparti: la Nigeria, e dall’altro lato i paesi francofoni. La Nigeria, attaccata alla sua propria valuta, il naira, non ha interesse a condividere il surplus proveniente dalle regioni petrolifere del Sud con gli altri paesi dell’Africa dell’Ovest. I paesi francofoni, invece, sono riluttanti a entrare in un’unione monetaria con un paese come la Nigeria, dato che detiene i due terzi del PIL della regione e che diventerebbe così il leader indiscusso della nuova unione monetaria.

Che ruolo ha la Francia oggi rispetto al franco Cfa?

I paesi dell’Uemoa non controllano la politica monetaria, dato che il franco Cha ha un tasso di cambio fisso con l’euro; quindi, con una zona più forte; e, accettando la libera circolazione del capitale, si perde così l’autonomia della propria politica monetaria. Inoltre, la Francia continua a garantire per il franco Cfa. Ma cosa vuol dire? Com’è noto, le riserve valutarie dei paesi Uemoa che si trovavano in Francia sono state restituite ai paesi africani, presso la Banca Centrale degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Bceao). In questo senso, la Francia non dispone più della controparte della sua garanzia. Ora, dal momento in cui il franco Cfa è legato alla valuta europea, e non più esclusivamente a quella francese, l’istituzione che dovrebbe garantirlo dovrebbe essere, in linea di massima, la Banca centrale europea; invece è la Francia. Non la Banca di Francia, che potrebbe avere delle relazioni dirette con la Bceao; ma il Ministero dell’economia e delle finanze, Bercy. E questo rende il caso francese anomalo.

Perché la Francia continua a garantire senza controparte, ovvero senza le riserve valutarie africane?

Lasciando perdere le teorie complottiste spesso alimentate dai russi, le conviene al livello di prestigio e potere simbolico, e accresce il suo potere negoziale diplomatico al livello internazionale. Mi piace usare una formula copiata dagli americani, che dicono “il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema”, applicata ai francesi: “Il franco Cfa è la vostra moneta, ma è il nostro problema”.

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