Il Medio Oriente secondo Trump

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Già nel 2016, durante la campagna elettorale che lo ha portato per la prima volta alla Casa Bianca, il rientrante presidente Usa Donald Trump ha lasciato intendere di non vedere nel Medio Oriente il perno della sua politica estera. Un cambio di passo importante rispetto ai predecessori che, al contrario, nell’area mediterranea e mediorientale hanno investito e non poco in termini politici e di risorse. Forse è stata proprio questa una delle carte vincenti del tycoon, con la quale ha potuto promettere agli elettori un maggiore impegno interno a discapito di avventure estere, in ossequio al suo slogan “America First”. Tuttavia, per un inquilino della Casa Bianca è impossibile non avere una linea sul Medio Oriente. E quanto attuato da Trump negli anni del suo primo governo, dal 2017 al 2021, costituisce la base per provare a comprendere il futuro approccio politico della sua nuova amministrazione.

Il primo caposaldo: la sfida all’Iran

Il primo punto fermo della linea di Trump riguarda la profonda contrapposizione alla Repubblica Islamica iraniana. Una delle prime mosse attuate dal tycoon una volta insediatosi nel 2017, ha riguardato la cancellazione dell’accordo sul nucleare iraniano. Quell’intesa cioè, stipulata appena un anno prima dall’amministrazione Obama, con la quale si inaugurava un percorso volto al ridimensionamento delle sanzioni da parte di Washington, in cambio dello stop dei piani di arricchimenti dell’uranio da parte di Teheran.

Secondo Trump, quell’accordo costituiva un favore all’Iran. Ma in realtà, quella presa di posizione era figlia di una più generale considerazione altamente negativa del ruolo della Repubblica Islamica nella regione. Trump ha sempre considerato la teocrazia sciita come il principale elemento di destabilizzazione e ha costantemente aumentato la pressione sulle autorità di Teheran. Pressione poi culminata con l’uccisione, avvenuta il 3 gennaio 2020 con un raid mirato a Baghdad, dell’architetto principale della politica estera iraniana: il generale Soleimaini. La linea di allora sarà probabilmente la linea anche di oggi: per il rientrante presidente Usa, l’Iran è da considerare come l’attore più destabilizzante del Medio Oriente e la Casa Bianca guarderà con favore un ulteriore indebolimento di Teheran sia sul piano interno che estero.

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Il capitolo Israele

La posizione anti iraniana di Trump nel primo mandato è stata figlia diretta di un più ampio appoggio dato all’alleato storico degli Usa nella regione: Israele. Il tycoon si è da subito mostrato molto vicino al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, arrivando anche ad attuare un passo mai preso in considerazione dai suoi predecessori: lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Tuttavia, ad oggi, al fianco della certezza rappresentata dal sostegno incondizionato di Washington allo Stato ebraico, non mancano le incognite.

A partire dal tipo di rapporto che intercorrerà tra lo stesso Trump e lo stesso Netanyahu. Il rientrante inquilino della Casa Bianca, durante l’ultima campagna elettorale, ha più volte mostrato una certa insofferenza verso alcuni comportamenti di “Bibi”. In un’intervista rilasciata ad aprile al Time ad esempio, Trump ha ricordato un episodio relativo alla notte dell’uccisione di Soleimaini. In quella circostanza, stando alla sua ricostruzione, Netanyahu si sarebbe ritirato all’ultimo momento dall’azione, lasciando così la paternità del raid (con annesse critiche) unicamente agli Usa.

Fermo restando che per l’attuale premier israeliano il ritorno di Trump rappresenta una maggiore garanzia per i suoi piani, non è però certo che il nuovo presidente Usa sia disposto a dare carta bianca incondizionata all’alleato.

La rivitalizzazione degli accordi di Abramo

Occorre inoltre considerare che, per lo stesso Trump, la prosecuzione delle tensioni in Medio Oriente rappresenta un ostacolo, quasi una perdita di energie e risorse che con la sua amministrazione vorrebbe spendere altrove. Ad esempio nel contrasto alla Cina e sui dossier riguardanti Pacifico e Artico. Da qui la possibilità che Trump faccia pressioni su Israele per la chiusura del conflitto a Gaza, circostanza che spiegherebbe in parte l’accelerazione subita dalle trattative per una tregua nella Striscia. A guerra finita, o quantomeno sospesa, la Casa Bianca potrebbe occuparsi del rilancio di quello che ha rappresentato il principale progetto politico nella regione della prima amministrazione Trump: gli Accordi di Abramo.

Con quelle intese, nate anche per isolare ulteriormente l’Iran, Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno normalizzato le relazioni con Israele sotto la supervisione e la mediazione degli Usa. L’intento di Trump sarebbe quindi quello di ridare vigore agli accordi e completare il suo progetto con il definitivo riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita. Circostanza che permetterebbe di vedere i due principali alleati nella regione stringere più solidi rapporti.

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