L’ultimo sorriso di un condannato a morte: nell’oblio della condizione umana

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Un ronzio di sottofondo. Il cigolare di una sedia che dondola. Il tintinnare di un cucchiaino sul bordo di una tazzina da caffè. Dormire. Mangiare. Sputare. Dormire. Mangiare. Sputare. «Che si fa oggi?».

Se niente ha più valore, tutto perde senso, la ragione, la vita, che cosa resta, se non un vacuo e superfluo tentativo di sopravvivenza? Ma sopravvivere a che cosa? Ma soprattutto, per che cosa?

L’ultimo sorriso di un condannato a morte, scritto e diretto da Gianluca Riggi, andatoin scena dal 17 al 19 gennaio al Teatro di Documenti a Roma, ci porta in un luogo senza nome, senza tempo, senza memoria. Un luogo in cui tre uomini condannati a morte vivono, anzi, sopravvivono, in attesa di un destino che ben conoscono.

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Prigionieri nel bianco asettico e opprimente di un rifugio, una cella vuota resa abitabile solo grazie a pochi mobili e oggetti di uso quotidiano: un tavolino con poche sedie, una radio, qualche utensile da cucina, sigarette, tazzine da caffè, uno sgabello usato come comodino e due brandine.

Lì sopra, mentre Luca (Gianluca Riggi) e Marco (Valerio Bonanni) assopiti, cercano ristoro in un sonno tormentato, Willie (Fabio Bisceglie), seduto su una sedia, è assorto, impegnato in un compito dal difficile risvolto: sputare contro un muro. Un’azione banale, inutile, disgustosa, ma necessaria. Necessaria per occupare il tempo, necessaria per trovare uno scopo, un obiettivo in un’esistenza che non gli appartiene più.

Infatti, i tre condannati passano le lente e infinite giornate nella disperata ricerca di trovare qualcosa da fare, qualcosa di cui parlare. I giorni, scanditi da semplici e rapidi passaggi da luce piena a buio, si alternano segnati dalla paura, dalla rassegnazione e dalla monotonia dei soliti gesti, dalla ritualità delle azioni, delle parole e dei discorsi affrontati.

Li osserviamo cucinare, dormire, fumare, farsi la barba, discutere per giocare a scacchi, per come girare lo zucchero nel caffè, per la musica da ascoltare alla radio, quella stessa musica che distrae Willie dal suo solito duello quotidiano con il muro: «Mi deconcentra. Mi tornano i ricordi e la memoria».

Tuttavia, in questa ricerca nella rassicurante convenzionalità del quotidiano, in realtà, tutto appare vacuo, indefinito, inconsistente e l’unico spiraglio di realtà, anche se doloroso, è quello di aggrapparsi ai ricordi di una vita lontana, quando ancora niente e nessuno, veniva sepolto sotto le macerie di una guerra che tuona sopra le nostre teste e dentro le orecchie.

Perché se l’interno di questa “prigione” ci spaventa, l’esterno è peggio dell’inferno. Ne sentiamo la minaccia attraverso il rombo dei motori degli aerei che sfrecciano nel cielo, nell’esplosione delle bombe che al loro passaggio lasciano macerie di palazzi, macerie di corpi. Come quello di Willie, torturato e seviziato da qualcuno che non vedremo mai. Qualcuno, o perché no, qualcosa, forse il male in persona, l’orrore che sporca il mondo, l’orrore che silenzioso e letale finisce per contagiare tutto, e tutti.

Come in L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, anche nel lavoro di Gianluca Riggi, dei tre uomini sappiamo poco o niente. Non sappiamo nulla della loro storia, dei motivi per cui sono rinchiusi in quel posto senza aria, senza luce e senza vita. Tre uomini colpevoli, forse innocenti, vittime, eppure carnefici. Chi sono? Perché sono lì? Ma questo, è davvero così importante? Tutto è orrore.

Tre uomini, tre condannati, tre riflessi delle paure e delle fragilità dell’essere umano. Mentre Valerio Bonanni, attraverso le parole di Marco incarna la speranza nel vivere un futuro al di fuori, negli occhi rabbiosi di Gianluca Riggi scorgiamo il precipizio della rassegnazione e della violenza scagliate con odio contro Fabio Bisceglie nel ruolo di un ragazzo mite e taciturno.

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Chissà come sarebbe fuori da lì, passare un anno interno ad osservare il mare, prova a chiedersi Marco. Per Luca, sarebbe solo assordante. Assordante. Assordante. Assordante.

Lo urla a ripetizione, quando per noi, chiusi in quella stanza con loro a respirare la stessa aria calda, stantia, umida, di assordante c’è solo un ronzio costante, il tintinnare dei cucchiaini nelle tazzine da caffè, il rimbalzare della palla durante una sadica partita a basket. Il suono di una paperella di gomma che invano tenta di coprire le urla strazianti di Willie mentre viene torturato a morte.

Non si difende neanche, e mentre aspetta di andare incontro al suo destino, non piange, ma sorride. Rumore, rumore, rumore. E poi nulla, il silenzio.

Ma in questo silenzio, non sono soli, anche il pubblico è lì con loro. L’umanità, che osserva impotente e lascia incombere la violenza omicida della guerra, dei potenti e degli oppressori sugli inermi. Tace, ormai assuefatta anche nel vedere giacere a terra il corpo di un ragazzo indifeso.

Anche nei saluti finali, Willie non si alzerà per accogliere gli applausi calorosi.

Là fuori, nel mondo, chi cade a terra, non si rialza più.

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