Venerdì 21 febbraio 2025, al Consiglio Nazionale delle Ricerche, è stato presentato il volume Siccità, scarsità e crisi idriche, un report di 280 pagine che raccoglie dati, analisi e soluzioni per affrontare la crisi idrica. Un lavoro che ha richiesto il contributo di ricercatori, stakeholder e istituzioni, unendo competenze e prospettive diverse per fornire strumenti concreti alla gestione dell’acqua.
Non è solo un documento di sintesi, ma una base scientifica solida per supportare politiche efficaci e scelte strategiche. Un contributo prezioso per chi deve prendere decisioni su un tema cruciale. Durante la presentazione, però, è emerso un punto su cui tutti hanno concordato: perché queste conoscenze producano un effetto reale, devono essere comunicate meglio.
La difficoltà non riguarda il report in sé, che ha dimostrato il valore della ricerca e il livello di approfondimento raggiunto. Il problema è più ampio e riguarda come la scienza riesce (o fatica) a trasferire il proprio sapere al di fuori della comunità scientifica. È una questione che va oltre questa pubblicazione e che si ripropone ogni volta che si affrontano temi ambientali e climatici.
Chi si occupa di ricerca conosce bene i numeri sulla crisi idrica. I dati parlano chiaro: la disponibilità d’acqua sta diminuendo, la siccità è sempre più frequente e gli sprechi continuano a essere un problema enorme. Eppure, per l’opinione pubblica, il problema dell’acqua emerge solo nei periodi di emergenza. Quando i fiumi si prosciugano e le città impongono restrizioni, la questione entra nel dibattito pubblico. Poi, appena la situazione torna alla normalità, l’attenzione si sposta altrove.
Questa discontinuità informativa ostacola la costruzione di una vera consapevolezza. Se il problema viene percepito come episodico, non si radica nella coscienza collettiva e non genera azioni concrete. Ed è qui che entra in gioco il tema della comunicazione, che non può più essere considerato un aspetto secondario della ricerca, ma una componente essenziale per garantire che il sapere scientifico abbia un impatto reale.
Uno dei punti emersi nel dibattito è stato proprio questo: la scienza deve imparare a raccontarsi meglio. Non significa rinunciare alla precisione, ma trovare modi più accessibili per trasmettere le informazioni. È necessario che i dati non rimangano chiusi all’interno di un linguaggio troppo tecnico, comprensibile solo agli esperti.
I dati da soli non bastano. Per arrivare al pubblico servono strumenti che rendano chiari i concetti senza distorcerli. Infografiche, mappe interattive, video esplicativi possono aiutare a trasformare numeri e modelli in qualcosa di immediato. La ricerca deve uscire dalle conferenze e dai documenti tecnici per entrare nei luoghi in cui le persone si informano realmente, dai giornali ai social network.
Anche il racconto è fondamentale. Dietro ogni dato ci sono storie: agricoltori che affrontano la siccità, amministratori locali che cercano soluzioni, comunità che si organizzano per un consumo più responsabile. Se il problema resta astratto, non spinge all’azione. Se invece diventa una storia concreta, allora diventa più vicino, più reale.
Per questo motivo è importante che il lavoro dei ricercatori venga affiancato da figure che sappiano tradurre il sapere scientifico in messaggi chiari e coinvolgenti. Giornalisti, divulgatori, esperti di comunicazione ambientale possono svolgere un ruolo essenziale nel connettere il mondo della scienza con il pubblico e con chi deve prendere decisioni operative. Senza questa connessione, anche la ricerca più accurata rischia di non avere alcun effetto sulla realtà.
Il report del CNR è uno strumento fondamentale, ma per fare la differenza deve essere accompagnato da una strategia comunicativa più incisiva. Il problema dell’acqua non riguarda solo scienziati e tecnici, ma tutti noi. E se la scienza ha il compito di produrre conoscenza, chi si occupa di comunicazione deve trovare il modo migliore per diffonderla.
Questa riflessione è stata uno dei temi della discussione: la comunicazione scientifica non può più essere considerata un elemento secondario della ricerca. Deve diventare parte integrante del processo. Se le informazioni non riescono a raggiungere chi deve prendere decisioni, non possono avere alcun impatto sulla realtà.
C’è bisogno di un lavoro costante per diffondere questi contenuti, per trasformare il sapere in strumenti concreti, per far sì che la conoscenza scientifica non resti chiusa nei laboratori ma diventi patrimonio collettivo. L’acqua è un bene comune, ma per proteggerla serve che tutti ne comprendano il valore. E questa consapevolezza non può nascere solo nei momenti di emergenza, ma deve essere coltivata giorno dopo giorno.
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