Il ct di Seregno dell’under 17 congolese: «Ho fondato il settore giovanile del Paese, dovevo rimanere pochi giorni e sono qui da 10 anni. Mi sono formato a Coverciano con i campioni del 2006 e sono arrivato in finale al Viareggio»
La connessione va e viene, ma soprattutto va. L’altro capo del filo è a 5.600 chilometri, a Brazzaville, e a rispondere è Fabrizio Cesana. Professione, allenatore di calcio. È l’italiano più famoso della Repubblica del Congo, con buona pace di quel Pietro Savorgnan di Brazzà in cui onore fu ribattezzata la capitale del Paese. Un Hervé Renard seregnese di 62 anni che, prima di fare nascere e crescere tutto il calcio giovanile sulla riva Nord del fiume Congo, ha speso vent’anni di gavetta su campi e panchine dell’interregionale brianzola e si è formato a Coverciano con i campioni del mondo 2006, prima della chiamata che non ti aspetti. Nel 2014 il ministero dello Sport congolese gli affida le chiavi di tutto il movimento giovanile e della nazionale Under 17 e lui, come il Celestino di De Gregori, chiude gli occhi e va in Africa. Ed ancora lì.
Professione?
«Sono ct della Nazionale Under 17 e coordinatore e formatore del Brazzaville National Centre, il vivaio nazionale del Paese. Gestiamo 290 ragazzi».
Ed è brianzolo.
«Di Seregno. Ho iniziato ad allenare nel 1992, tanti anni di Serie D. Visnovo, Carate, Meda…Poi, dopo aver frequentato il corso a Coverciano e aver ottenuto il patentino Uefa pro è cambiato tutto».
Racconti.
«Una sera a cena Paolo Berrettini, già ct delle nazionali italiani giovanili e allora tecnico del Congo under 20, mi propose di fargli da assistente in Africa. All’inizio ero piuttosto perplesso».
Ma poi accettò.
«Ci pensai e ripensai, poi un giorno feci le valigie e partii. Ricordo che mia moglie era interdetta. Mi chiese “Ma dove vai?” “Mah, in Congo…”. Avrei dovuto rimanere solo qualche giorno per sondare il terreno. Era il 14 marzo 2014, ricorderò sempre la data».
Ed è ancora lì.
«Dopo la scadenza del contratto di Berrettini il ministero mi propose non solo di restare, ma di assumere le redini del vivaio nazionale. Qui le squadre di club non hanno settori giovanili, alla formazione pensa lo Stato. Abbiamo ragazzi dagli 8 ai 17 anni: prima di me si veniva reclutati solo dai 17 in su».
Dal calcio brianzolo a quello africano.
«I primi mesi furono complicati. Ero fresco di master a Coverciano, ero abituato a campi e attrezzature all’avanguardia, a curare ogni particolare. Ero ossessivo, volevo che tutto fosse perfetto. Qui ho imparato che la perfezione, anche se è lecito cercarla, non esiste. Piuttosto bisogna coltivare la pazienza».
Ambientamento complicato?
«Solo da un punto di vista tecnico, umanamente i congolesi sono straordinari e mi hanno accolto a braccia aperte. Brazzaville è una grande capitale, certi stereotipi sono ridicoli».
Però….
Però all’inizio davo appuntamento per l’allenamento alle 15 e in campo c’ero solo io».
Problemi di professionalità?
«No, di condizioni. Qui i ragazzi per venire ad allenarsi fanno sacrifici impensabili altrove, si sobbarcano anche 10 chilometri di tragitto a piedi, i mezzi di trasporto non ci sono, le scuole talvolta cambiano orario delle lezioni all’ultimo momento. Ma loro vengono ad allenarsi lo stesso. E comunque in ritardo non arrivano più».
Si avverte una grande passione.
«Brucia, pulsa, la avverti. In Italia l’attenzione per il calcio nelle giovani generazioni non è più come un tempo, i ragazzi sono attratti da altri passatempi. Qui c’è solo il calcio. Si gioca ovunque, nella sabbia, per strada, con un pallone di carta e stracci. Un po’come da noi 50 anni fa. E infatti si vede: il livello tecnico è alto, al netto delle dicerie. Semmai si deve lavorare sulla tattica».
L’allenatore Claude Le Roy diceva: “Se vai a lavorare in Africa e non sai niente di Patrice Lumumba o della secessione del Katanga non ti ascolteranno mai”.
«E aveva ragione. Allenare in certi contesti non è come farlo in altri. Devi conoscere i territori e la loro storia. Solo così puoi capire perché certe cose succedono».
Giornata tipo?
«Sveglia alle sei, alle sei e mezza in campo, l’Under 17 si allena alle sette e mezza. Sono costretti ad allenarci al mattino per via del caldo, poi vanno a scuola. Poi durante la giornata si alternano i più piccoli. E alle 16 tutti via, perché tornare a casa dopo l’imbrunire può essere rischioso».
Passatempi?
«Praticamente nessuno, lavoro 12 ore al giorno. Per fortuna mio figlio Lorenzo vive con me, fa il tecnico anche lui e mi dà una mano. Non alleno tutte le formazioni personalmente, ma devo essere sempre presente. I problemi sono all’ordine del giorno».
Di natura tecnica?
Non solo. Bisogna gestire un capitale umano per il quale ci vuole una sensibilità che travalica l’esperienza calcistica. Abbiamo 290 ragazzi, qui l’allenatore è amico, prete, confessore, factotum. È un po’ come il parroco di un oratorio. E poi ci sono situazioni complicate che magari il mundéle, (l’uomo bianco in lingua lingala, ndr) può sbloccare, ahimé».
Parroco ma anche allenatore…
«Ci siamo tolti delle grandi soddisfazioni, siamo riusciti a qualificarci per la prima volta dopo 10 anni in Coppa d’Africa. E soprattutto a febbraio abbiamo sfiorato la vittoria al trofeo di Viareggio».
Scusi?
«Con la squadra federale del Brazzaville National Centre abbiamo perso in finale contro i nigeriani del Beyond Limits. Per il movimento continentale è stato un riconoscimento incredibile, ma da italiano rilevo che avere due squadre africane in finale al Viareggio rappresenti un serio campanello d’allarme per il nostro calcio».
Fiori all’occhiello della rosa?
«Abbiamo un portiere fortissimo, classe 2006. Una volta a livello tecnico i portieri pagavano dazio, non esistevano preparatori. Ora il livello sta salendo».
Una selezione di vecchie glorie italiane venne a salutarla giocando un’amichevole a Brazzaville, nel 2015.
«Era il 2015, la squadra si chiamava per l’occasione “Azzurri star”. Vennero Tacconi, il compianto Totò Schillaci. E il mio amico Moreno Torricelli, con cui giocai per due anni alla Caratese prima che Trapattoni lo scoprisse in amichevole e lo portasse di punto in bianco alla Juve, dai dilettanti. Fu una bellissima rimpatriata».
Ha frequentato anche il corso a Coverciano con i campioni del mondo.
«Con Gattuso, Nesta, Cannavaro, Zambrotta… quello che mi impressionò di più fu Grosso. Si capiva che era tagliato per allenare».
Calciatore africano più forte di sempre?
«George Weah e Samuel Eto’o. Da tifoso interista, mezzo punto in più per il secondo».
Pensa di ritornare in Italia un prima o poi?
«Se arriva l’offerta giusta di sicuro. L’Italia è casa, la mia qui è una missione a tempo. L’ho detto anche ai miei collaboratori: studiate, aggiornatevi, perché un giorno tutto questo sarà vostro. E quel giorno potrebbe non essere così lontano».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link