L’ultima, definitiva, parola sull’ammissibilità dei referendum è arrivata. E con sé ha portato decisioni anche inattese. I giudici della Corte costituzionale hanno bocciato il quesito sull’autonomia differenziata, dichiarandolo “non chiaro” e pertanto “inammissibile”. Nessuna abrogazione in vista per la legge Calderoli, mentre è arrivato il via libera agli altri cinque: gli elettori potranno votare il quesito sulla cittadinanza e anche i quattro proposti per abrogare il Jobs Act. Una decisione, quella sui referendum, prevista e anzi già rimandata una volta, in attesa dell’elezione dei quattro giudici di nomina parlamentare ancora mancanti. Dopo tredici fumate nere, la Consulta non ha potuto più aspettare, per valutare l’ammissibilità e anche per scegliere il suo nuovo presidente, che verrà comunicato domattina: in pole ci sarebbe il magistrato Giovanni Amoroso.
Nulla si è mosso per ore, fuori dalla Corte, che si è riunita in un primo consiglio di presidenza alle nove e mezza del mattino. Gli avvocati usciti per una boccata d’aria hanno parlato con prudenza: “Aspettiamo, nessuna previsione”. Il risultato dell’ultimo esame, quello di ammissibilità, è arrivato in serata. Il bollettino ha dichiarato “inammissibile” il quesito che chiedeva l’abrogazione della legge sull’autonomia. Tutti ammessi, invece, gli altri, dalla cittadinanza al Jobs act, “perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario”, hanno precisato dalla Consulta. C’è attesa, soprattutto tra chi ha raccolto le firme contro la norma leghista, per le motivazioni della Corte, che verranno depositate entro il 10 febbraio. Forse, già in settimana.
“Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, ‘Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione’?”. Questa era la domanda sull’autonomia che gli elettori avrebbero trovato sulla scheda. Un oggetto e una finalità che, appunto, all’Alta Corte non sono “risultati chiari”. Un vulnus che, si legge nel comunicato della Consulta, “pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore”. Secondo quanto viene indicato dalla Corte, “il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata” e questo “non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale”.
A quanto apprende HuffPost da fonti qualificate, la bocciatura del voto contro l’autonomia è sorto dopo il precedente intervento della Consulta, a novembre, sulla legge Calderoli. La Corte aveva rilevato già sette profili di illegittimità, rimettendo la legge nelle mani di Camera e Senato. Chiedere agli elettori di votare una norma già parzialmente smontata dai giudici costituzionali sarebbe stato complicato, perché “non avrebbero avuto in mano il quesito originario”.
Secondo questa ricostruzione, e in attesa dei chiarimenti ufficiali, si muovono dichiarazioni come quella di Maria Elena Boschi: “Quella del governo è una vittoria di Pirro: la Corte ha già demolito la legge Calderoli, che così come era scritta è inattuabile”. Senza referendum, ma con la certezza di ridiscutere il testo in aula, si sono detti pronti alle barricati alcuni parlamentari del Partito democratico, tra i più noti antagonisti della legge, come Alessandro Alfieri: “In Parlamento continueremo a dare battaglia per evitare le forzature della destra e bloccare le intese avviate con le regioni del nord”. Ha esultato, ovviamente, il Carroccio, con Luca Zaia in testa: “Questo pronunciamento contribuisce a chiarire ogni dubbio sul percorso dell’autonomia”, ha scritto su Facebook il presidente del Veneto al grido di “Avanti tutta!”. Sodalizio ritrovato, dopo le frecciatine sul terzo mandato, anche con Forza Italia: quella di bocciare il referendum sull’autonomia è “una decisione logica”, ha dichiarato il capogruppo azzurro al Senato, Maurizio Gasparri.
Altro discorso quello del referendum sulla cittadinanza, promosso da +Europa, per ridurre il periodo di residenza legale continuativa necessario per richiederla da 10 a 5 anni, “come in Francia e Germania”, sottolineano i promotori. Dopo anni passati a dibattere in Parlamento, senza raggiungere una quadra su una nuova legge sulla cittadinanza, ora la palla passa ai cittadini. In festa, davanti a Montecitorio, c’è Riccardo Magi. Dopo aver invocato un election day unico tra referendum ed elezioni amministrative, il segretario di + Europa ha lanciato un messaggio a Giorgia Meloni: “Contiamo su tutti, proprio su tutti, a partire dalle istituzioni e da palazzo Chigi che ha voce tutti i giorni sui media perchè invitino i cittadini a votare, a partecipare perchè non si faccia mancare l’informazione”. Senza l’appeal della battaglia anti-autonomista, è il dubbio che già aleggia nell’opposizione, sarà più difficile raggiungere il quorum necessario.
Più intricato il dossier lavoro finito sul tavolo dei giudici. Dalla Cgil sono arrivati ben quattro quesiti, tutti contro il Jobs Act: il primo propone l’abrogazione della legge che nel 2015 ha cancellato il diritto al reintegro anche quando il licenziamento venga giudicato illegittimo; un altro quesito riguarda il lavoro dignitoso, pertanto viene chiesta la cancellazione del tetto massimo di risarcimento al lavoratore ingiustamente licenziato, lasciando al giudice la possibilità di decidere un risarcimento giusto e proporzionato; poi c’è l’abrogazione delle norme che liberalizzano i contratti a termine; infine, sempre sul lavoro ma in tema di sicurezza, viene proposta l’eliminazione della norma che prevede, per l’impresa committente, la responsabilità dei danni legati alle aziende appaltatrici. La scelta sul Jobs Act, inoltre, è una posizione molto divisiva a sinistra: opporsi alla riforma approvata da Matteo Renzi ha messo in crisi le varie anime del Partito democratico. Molti esponenti dem hanno votato quella legge, altri come Elly Schlein non hanno mai nascosto la propria antipatia per quel testo.
La decisione, in ogni caso è stata presa. Va ricordato che i giudici della Corte chiamati a decidere oggi erano solo undici e non i quindici previsti, perché i quattro di nomina parlamentare non sono stati ancora eletti (la prossima seduta a camere riunite è prevista per giovedì prossimo e un’altra fumata nera sarebbe la quattordicesima). Prima, si era scelto di aspettare, rimandando la decisione sui referendum prevista per il 13 gennaio scorso. Ora, la volontà della Corte, davanti all’impasse della politica, è quella di accelerare. Sui referendum e anche sulla presidenza della Consulta, assunta ad interim da Giovanni Amoroso, dopo la fine del mandato, il 21 dicembre scorso, di Augusto Barbera.
Domani, infatti, la Corte si riunirà per eleggere il nuovo presidente, che verrà annunciato in una conferenza stampa. Difficile, nel caso di un’istituzione così alta e delicata, lanciarsi in un totonomi. A rigor di prassi, il più probabile successore di Augusto Barbera sembra, comunque, essere proprio Giovanni Amoroso, il giudice più anziano. Magistrato e docente salernitano, è stato eletto dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2017, dove prima era stato nominato presidente di sezione e direttore dell’ufficio del Massimario. Al di là di come finirà, è piuttosto inedita una convocazione a così stretto giro dalle parti della Consulta: per il prossimo presidente, secondo quanto filtra, i giudici avrebbero preferito di ritornare alla formazione completa, ma i tempi si sono allungati eccessivamente e la sensazione è che anche giovedì prossimo il parlamento riunito non riuscirà a trovare un accordo per chiudere la partita sui quattro giudici mancanti.
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