La prima legge sul suicidio assistito

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«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta»: è quello che Camus considerava «l’unico problema filosofico veramente serio», rispetto al quale tutto il resto «viene dopo». Ed è un problema che interroga anche il diritto: come deve rispondere la legge alla richiesta di chi ritenga la propria vita non più meritevole di essere vissuta? Può la legge arrivare al punto di affermare un «diritto di morire» o di «rinunciare alla propria vita», inteso – per usare le parole di Giovanni Fornero, uno dei filosofi che si stanno più dedicando a questi temi – come «diritto, di fronte a determinate sofferenze vissute come lesive della propria idea di dignità, di congedarsi volontariamente dalla propria vita, sia per mano propria sia con l’intervento di altri»?

Sono domande alle quali fino ad oggi la legge italiana aveva risposto solo parzialmente, attraverso la legge del 2017 sulle «Disposizioni anticipate di trattamento», la quale per un verso attribuisce a qualunque persona capace di intendere e di volere il diritto sia di rifiutare trattamenti sia di revocare in qualsiasi momento l’eventuale consenso già prestato, e per un altro verso prevede che il medico, nei casi di «prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte», debba «astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati», così come, nei casi di «sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari», possa «ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore».

Ma la legge del 2017 non ricomprende nel suo ambito di applicazione né il suicidio assistito né l’eutanasia: laddove per «eutanasia» bisogna intendere «l’atto con cui un medico o altra persona somministra farmaci su libera richiesta del soggetto consapevole e informato, con lo scopo di provocare intenzionalmente la morte immediata del richiedente», anticipandola «al fine di togliere la sofferenza», e per «suicidio assistito» il suicidio compiuto «grazie alla determinante collaborazione di un terzo, che può anche essere un medico, il quale prescrive e porge il prodotto letale» (secondo le definizioni del Comitato nazionale per la bioetica). E quindi, in un certo senso, le domande che la questione del fine vita pone al diritto ne risultano perfino intensificate: perché riconoscere il diritto al rifiuto o all’interruzione delle cure e non anche quello all’eutanasia o al suicidio assistito? Perché ammettere il diritto alla disconnessione di una macchina e non anche quello a ricevere un farmaco?

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A queste ulteriori domande ha risposto, nel 2019 e nel 2024, la Corte costituzionale, attraverso due sentenze riguardanti il suicidio assistito ma contenenti considerazioni più ampie sul fine vita. L’agevolazione del suicidio, ha detto la Corte, nel nostro ordinamento non è possibile per regola generale ma può diventarlo a certe condizioni: la persona che chiede di essere aiutata a morire dev’essere «affetta da una patologia irreversibile» che sia «fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili» e dev’essere «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale», salvo dover essere «capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Ma l’auspicio, dichiarato da entrambe le sentenze era che, nel rispetto di questi principi, venisse emanata una legge compiuta.

Ecco: ora questi principi, in relazione al suicidio assistito, sono stati recepiti da una legge regionale toscana. Ed è la prima volta, in attesa di una legge nazionale (se verrà, quando verrà). Si sollevano voci anche molto critiche, è inevitabile e anche giusto. Ma tutto sembra, francamente, meno che la parola di legge espressa dalle due sentenze della Corte, e adesso dalla legge toscana, sia una parola che non rispetti il mistero della vita e voglia imporsi. Al contrario: è una parola che si apre, che vuole accogliere, e che accetta il mistero della vita e della morte e la sua insondabilità, perché il principio che afferma è quello secondo cui nessuno può permettersi di sindacare la tollerabilità o intollerabilità delle sofferenze di una persona malata, se non la persona stessa. È una parola che contempla una resa, che ammette un vuoto: attribuendo solo alla persona che soffre il diritto di riempirlo di senso.



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