Atti esecutivi senza limiti e confini — Il Globo

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Se qualcuno pensava che bastasse una telefonata, a poche ore dall’annuncio dell’imposizione di nuovi dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e di alluminio, per assicurarsi l’eccezione dell’Australia dalle misure dirette al mondo intero, si illudeva alla grande. Il primo ministro Anthony Albanese la telefonata l’ha fatta, come era previsto e dovuto, e Donald Trump, dopo ben 40 minuti di colloquio, ha socchiuso la porta alla possibilità dell’esenzione, perché è un po’ il suo stile. D’altra parte, da un presidente che fa minacce a destra e a sinistra e non guarda in faccia i livelli di alleanza prima di farle, non ci poteva di certo aspettare un immediato dietrofront. Non è coreografico abbastanza, come l’annuncio dei dazi fatto, domenica sera, parlando con i giornalisti in volo sull’Air Force One, sullo sfondo di una mappa del Golfo del Messico ribattezzato “Golfo d’America”.

E non è sicuramente il ‘nuovo mondo’ che Trump sta disegnando, dopo essere rientrato nello Studio Ovale, che ben poco ha a che fare con la logica e qualsiasi minimo livello di diplomazia. Misure quasi identiche a quelle annunciate nel suo primo mandato che, in quell’occasione, l’Australia era stata capace di annullare grazie alle telefonate e agli interventi dell’allora primo ministro Malcolm Turnbull (che aveva avuto un’iniziazione piuttosto turbolenta con il capo della Casa Bianca quando, nel 2017, aveva litigato telefonicamente con il neoletto presidente sull’accordo da poco stipulato sull’invio di rifugiati siriani negli USA) e dell’ambasciatore Joe Hockey, ma alla fine la questione delle tariffe e delle esenzioni era stata decisa su basi di ‘realpolitik’, non sulla base di personalità o differenze politiche.

E questa volta, l’Australia si ritrova in una posizione di ancora maggior vantaggio rispetto al 2018 per giustificare un’esenzione dai dazi extra su acciaio e alluminio: non solo, come ha già accennato Trump, “perché compra tanti aerei dall’America” (altro servizio a pagina 11) a causa delle sue esigenze geografiche (magari anche sa, ma fa meno effetto, che l’Australia importa più bulldozer che aeroplani), ma anche per il patto AUKUS, che il presidente USA sembra sostenere.

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Il ministro della Difesa Richard Marles, infatti – come riportato nell’edizione di lunedì scorso -, è appena tornato da Washington, dove ha consegnato un assegno da 500 milioni di dollari americani, la prima rata di un investimento previsto di 4,7 miliardi da parte dell’Australia per accelerare la produzione nei cantieri navali statunitensi di sottomarini nucleari. E questo tipo di investimento diretto, proprio nel settore della Difesa, è esattamente ciò che Trump apprezza e chiede agli alleati: un impegno finanziario per sostenere il ruolo guida dell’America nel campo della sicurezza e della cooperazione internazionale. 

Non ancora l’esenzione quindi, anche perché l’Australia qualche peccatuccio da farsi perdonare ce l’ha, non avendo rispettato gli impegni presi ‘a voce’ nel 2018 proprio sui volumi di esportazione di alluminio da contenere e non da espandere come ha invece fatto. Serviranno altre telefonate e altri incontri, come quello già in agenda del ministro per il Commercio estero Don Farrell con la sua controparte, Howard Lutnik, per cercare di portare a casa il risultato sull’esenzione. L’idea che si potesse semplicemente chiamare Trump e risolvere tutto in una quarantina di minuti sfida ogni logica nell’attuale situazione all’insegna di un’imprevedibilità di comportamenti di un leader senza uguali, che si sente legittimato a dire l’indicibile quando e come gli pare, e agire senza scrupoli o freni sventolando la bandiera dell’America First, del far diventare l’America di nuovo grande, di nuovo ricca ecc.

Non esiste alcun motivo valido per cui Trump dovrebbe imporre una tariffa del 25% sull’acciaio e l’alluminio australiani. E il presidente USA l’ha già parzialmente riconosciuto ammettendo che esiste un caso da prendere in considerazione. 

“Ho appena parlato con lui, una persona in gamba”, ha detto Trump di Albanese dallo Studio Ovale dopo la chiamata di martedì scorso. “Noi abbiamo un surplus con l’Australia”, ha aggiunto. “E gli ho detto che è qualcosa a cui daremo grande considerazione.”

Probabilmente, era tutto ciò che il primo ministro poteva, per ora, aspettarsi, anche perché, sicuramente Trump non ha dimenticato quello che il leader laburista ha detto di lui in passato. E sebbene il presidente abbia indicato di essere disposto a guardare oltre, almeno nelle sue osservazioni personali su Albanese, la vera prova sarà nei fatti, con poco meno di un mese ancora a disposizione per il capo di governo per poter arrivare al mantenimento dello status quo sulle tariffe d’esportazione, data la scadenza di marzo, fissata per l’entrata in vigore dei nuovi dazi. 

Un problema in più, in vista dell’ormai vicinissima volata elettorale, per il capo di governo che potrebbe diventare però, in caso di successo, un punto di vantaggio per la sua credibilità e autorità agli occhi degli australiani dandogli la possibilità di ridimensionare gli attacchi dell’opposizione che lo accusa di essere un leader debole in generale e lo accuserebbe, in caso di insuccesso sui dazi, di pagare le conseguenze anche della scelta di avere a Washington un ambasciatore “non gradito” come Kevin Rudd (a causa dei pesanti commenti che l’allora primo ministro aveva fatto sul ‘primo Trump’) che, secondo molti parlamentari dell’opposizione (non Dutton), lo renderebbero ora un grave handicap per gli interessi australiani. 

Molto è in gioco per Albanese, oltre all’impatto delle tariffe sull’industria locale e sull’economia più ampia, ma molto è in gioco anche per Peter Dutton che non può di certo dare l’impressione, per convenienza politica, di fare il tifo contro l’Australia.

Le imposizioni extra del 25% sulle importazioni australiane di acciaio e alluminio dovrebbe, in un mondo normale, essere impensabili, considerando l’esistente accordo di libero scambio che avvantaggia in modo significativo gli Stati Uniti, ma nessuna amicizia o alleanza può essere garantita sotto il Trump 2.0 che, quasi ogni giorno, firma qualche nuovo ‘atto esecutivo’, con decreti, ordini, proclami e memorandum. 

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Il rischio maggiore per l’Australia nel cercare un’esenzione alle nuove tariffe che il presidente sia diventato così innamorato dei dazi come strumento politico da volerle imporre in modo indiscriminato per ottenere risultati politici che però, nel caso dell’Australia, non ci sono: niente immigrati su cui negoziare come nel caso del Messico e della Colombia e nessuna lotta al problema fentanyl che ha convinto il Canada ad essere più determinato nella lotta al traffico di droga.  

Nessuna richiesta particolare e nessuno sconto invece alla Cina con quel 10% in più imposto ai suoi prodotti che ha ottenuto in cambio contromisure immediate su gas, carbone e macchinari agricoli americani. Una reazione (già preventivata anche da Canada, Messico e Unione Europea) che Albanese ha categoricamente e giustamente escluso, facendo rilevare l’importanza del dialogo, del continuare una relazione positiva con gli Stati Uniti come dimostrato con  la telefonata a Trump, sempre mettendo al primo posto gli interessi dell’Australia. Prossimo appuntamento per sbrogliare la matassa-dazi il 24-25 febbraio all’ambasciata australiana a Washington quando rappresentanti di primissimo piano dell’amministrazione USA si incontreranno con Rudd e, probabilmente, anche con i ministri degli Esteri, Penny Wong e del Commercio, Don Farrell. 

 



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