Sabato prossimo Hamas non rilascerà alcun ostaggio. Una risposta, secondo l’organizzazione terroristica, alle violazioni dell’accordo da parte di Israele. «L’esercito israeliano sta ostacolando il flusso di aiuti umanitari a Gaza e prendendo di mira i palestinesi che tornano nel nord della Striscia», ha detto il portavoce del movimento islamico, Hudhaifa Kahlout. Ma anche per le minacce di Trump: «Gaza non è un pezzo di proprietà immobiliare da acquistare o vendere, è una parte inseparabile della nostra terra palestinese occupata», ha concluso.
Israele ha reagito a questa decisione in modo duro. È stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu, al termine del gabinetto di sicurezza, a dichiarare che «Se Hamas non restituirà gli ostaggi entro mezzogiorno di sabato, il cessate il fuoco terminerà e le Forze di Difesa Israeliane, riprenderanno intensi combattimenti finché Hamas non sarà definitivamente sconfitto». Anche il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che la mossa di Hamas di ritardare il rilascio degli ostaggi è una vera e propria violazione del cessate il fuoco, affermando anche di aver ordinato alle Forze di Difesa di «prepararsi per qualsiasi eventuale attacco a Gaza a protezione delle comunità israeliane poste al confine».
Nonostante il cessate il fuoco, Israele continua a mietere vittime: ieri un civile palestinese è stato ucciso e un altro è rimasto gravemente ferito dalle forze israeliane a ovest della città di Rafah, nel sud di Gaza, mentre un terzo è rimasto colpito nel quartiere Tal al-Sultan. Dal 7 ottobre ad oggi nella sola Gaza i morti, secondo dati forniti dal Ministero della Salute della Striscia, sono 48.219, mentre i feriti superano le centoundicimila unità.
Che il cessate il fuoco nella Striscia si basasse su un accordo fragile e molto delicato era noto sin dall’inizio. Ed era anche evidente che alla prima violazione l’intesa rischiasse di saltare. Nessuno, ufficialmente, si aspettava, però, l’arrivo del “ciclone Trump”, che sin dai primi giorni del suo secondo mandato, ha posto sul tavolo una proposta a dir poco singolare ed eccentrica, ossia di evacuare Gaza, deportare i suoi abitanti per poterla ricostruire e renderla una sorta di “riviera del Medio Oriente”. Compatto, tutto il mondo arabo che respinge il piano di Trump. Nessuno vuole diventare complice di una nuova Nakba, la catastrofe, come i palestinesi chiamano l’esodo forzato del 1948. E nonostante le minacce del presidente americano, anche Giordania ed Egitto si dichiarano contrari all’esodo.
Evacuazione, allontanamento o trasferimento volontario. Questi i termini utilizzati per invitare i palestinesi ad andarsene dalla propria terra, dai luoghi che li ha visti nascere e prima di loro, per generazioni, hanno vissuto i loro antenati. Le parole del presidente Trump richiamiamo alla mente le deportazioni, le pulizie etniche di un passato non troppo lontano e che il mondo intero ha condannato. Oggi Gaza è una sorta di prigione a cielo aperto, una lingua di terra densamente popolata, i cui abitanti sono soggiogati dai gruppi terroristici di Hamas e della Jihad islamica. Ma Gaza è una terra antichissima, snodo importante sulla Via Maris, l’antica strada che congiungeva l’Egitto alla Siria.
Ricostruirla senza i palestinesi, è la “proposta” di Trump. Nonostante le minacce del presidente statunitense di sospendere gli aiuti, anche la Giordania, con il re Abdallah, ha ribadito ieri nel corso del colloquio con Trump, la contrarietà al piano per Gaza, riaffermando che non accoglierà profughi palestinesi. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, che ha sospeso l’ incontro in programma alla Casa Bianca, ha dichiarato che se gli Stati Uniti congeleranno gli aiuti, l’Egitto è pronto ad interrompere il trattato con Israele.
Ma conviene all’America bloccare gli aiuti ad Egitto e Giordania? Nel regno hascemita circa tremila soldati americani sono di stanza, e in base ad un accordo, possono utilizzare ben dodici basi militari giordane. Lo stesso vale per l’Egitto.
Netanyahu, naturalmente, appoggia la proposta del presidente americano: «È la prima idea fresca da anni e ha il potenziale per cambiare tutto a Gaza». Non di meno, il leader di Otzma Yehudit, ex ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben- Gvir ha dichiarato: «È indispensabile un massiccio attacco su Gaza, dal cielo e da terra, insieme al blocco totale degli aiuti umanitari, tra cui l’elettricità, il carburante e l’acqua. Dobbiamo tornare alla guerra e distruggere». Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha sollecitato Israele a ritirarsi dall’accordo del cessate il fuoco se il gruppo non libererà tutti gli ostaggi entro il prossimo sabato, proponendo che per ogni ostaggio ucciso, Israele s’ impossessi del 5% del territorio della Striscia.
Mentre la tensione tra Israele e Hamas sale, le piazze e le strade di Tel Aviv sono tornate a riempirsi delle famiglie degli ostaggi e di migliaia di sostenitori che chiedono azioni concrete per il raggiungimento della seconda fase della tregua che prevede la liberazione di tutti gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. «Netanyahu non far saltare gli accordi» gridavano i manifestanti.
Hanno occupato le principali vie di comunicazioni della città. Gente esasperata, che da oltre un anno chiede al governo di riportare a casa i familiari rapiti. Tra loro c’era anche un ex ostaggio, Ofer Calderon: «L’accordo non deve saltare – ha detto diffondendo la sua voce attraverso un megafono -. Dobbiamo riportare tutti a casa. Bisogna far presto. Basta giocare con le vite umane».
Nel frattempo, l’operazione in Cisgiordania “Muro di ferro” prosegue a ritmo incessante. I palestinesi vengono cacciati dalle loro abitazioni. L’esercito prosegue coi rastrellamenti e costringe la gente ad abbandonare città e villaggi. Dalla Seconda Intifada, siamo nei primi anni del 2000, questa è la più massiccia operazione che l’esercito sta compiendo in Palestina. Nel campo profughi di Nur Shams, a Tulkarem, i militari hanno prima impartito un divieto assoluto di movimento, poi hanno preso d’assalto le abitazioni cacciando i residenti. Le case vengono razziate e danneggiate. Il governo Netanyahu sta valutando – l’argomento era ieri mattina all’ordine del giorno nel gabinetto di Sicurezza – se dispiegare truppe in modo permanente ed esclusivo nei campi profughi nelle città di Tulkarem e Nur a-Shams. Una decisione che sicuramente provocherebbe nuove tensioni in tutta la Cisgiordania.
Nel frattempo, l’Autorità palestinese, su pressioni americane e israeliane, è stata costretta a sospendere l’aiuto economico alle famiglie dei palestinesi uccisi o detenuti da Israele.
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