A gennaio il prezzo medio dell’elettricità all’ingrosso è stato di 143 euro il MWh; un anno fa era sotto i 100. Ed è solo l’inizio: fino ad ora, a febbraio, la media è stata di 154 euro e lunedì siamo arrivati a quota 163; negli anni prima della pandemia la media era sempre oscillata tra i 40 e i 70. Tra le varie cause, ovviamente, un posto al sole spetta all’andamento del prezzo del gas che dobbiamo a una doppia servitù o, meglio, alle due facce della stessa servitù: quella geopolitica nei confronti degli USA e quella economica nei confronti delle oligarchie finanziarie, in buona parte USA pure loro. E poi ci s’è messo pure il meccanismo demenziale con il quale abbiamo deciso che il prezzo del gas debba determinare quello dell’energia in generale; in Italia infatti, come è ben noto, il gas pesa circa il 40% del mix energetico, ma determina il prezzo dell’energia durante 9 ore su 10: in assoluto il record europeo. Non dovrebbe sorprendere quindi che tra i principali mercati europei, l’Italia è stabilmente al primo posto della classifica di chi spende di più (e pure di parecchio): stando alle medie di gennaio +25% rispetto alla Germania, + 40% rispetto alla Francia, + 48% rispetto alla Spagna e, addirittura, + 226% rispetto ai Paesi scandinavi. Secondo Nomisma, questa vera e propria rapina si tradurrà in aumenti attorno al 30% delle bollette di famiglie e imprese
Yara è la multinazonale norvegese che nel 1996 ha rilevato le attività di Enimont e Montedison; in Italia oggi ha due siti produttivi: uno a Ferrara e l’altro a Ravenna. Impiegano poco meno di 300 addetti e producono fertilizzanti e altri prodotti chimici; quello di Ferrara in particolare produce ammoniaca, che è una delle produzioni più energivore possibili immaginabili. Risultato: negli ultimi 3 anni e mezzo è stato più chiuso che aperto e, al momento, è in manutenzione, con riapertura prevista per marzo. Ma “Con questi prezzi del gas” ha dichiarato al Sole il rappresentante legale dell’azienda “non siamo certi che nel sito di Ferrara, in marzo, la produzione di ammoniaca possa ripartire”; e il problema non riguarda solo i 140 addetti del sito: quello di Ferrara, infatti, è l’unico sito in Italia che produce ammoniaca, che è indispensabile a una quantità infinita di filiere produttive, dall’agricoltura all’automotive. La multinazionale norvegese ha il coltello dalla parte del manico: “Abbiamo fatto una proposta al governo italiano per avere gas a prezzo calmierato, ma non abbiamo ancora avuto risposte” e se il governo non provvederà prendendo i soldi dalla fiscalità generale, pagata dalle stesse famiglie che devono affrontare bollette alle stelle, “ci sono altri Paesi disposti a fare ponti d’oro per portarsi in casa produzioni strategiche come la nostra”, minaccia il rappresentante legale. In particolare – indovina un po’ – gli “Stati Uniti”. E se se ne vanno loro, non saranno i soli: il rischio più grande, conclude l’azienda, “è la delocalizzazione anche delle aziende che dipendono dall’ammoniaca ed i suoi derivati”. Giusto per chi ancora non ha capito come funziona il capitalismo: l’impianto guadagna? i soldi vanno agli azionisti. C’è un imprevisto? Paga lo Stato, sennò chiudiamo (e meno male che il profitto era una remunerazione del rischio…). Non nazionalizzare un’azienda del genere, molto banalmente, equivale a rapinare i cittadini italiani.
Anche i cementifici sono messi alle strette dalla bolletta: nel loro caso, minacciare di chiudere baracca e burattini e andare da un’altra parte funziona meno perché il cemento pesa un sacco e costa poco e quindi, tendenzialmente, si produce per il mercato dove si produce. Ecco, allora, che per salvare i posti di lavoro i cementifici non chiedono allo Stato di pagare al posto loro; si accontentano che levi tutte le regole che cercano un po’ di limitare l’impatto ambientale di una delle produzioni più zozze possibili immaginabili, a partire dalla possibilità di bruciare più rifiuti al posto del gas. Tanto un po’ di diossina che sarà mai… In Europa, d’altronde, muoiono già circa 350 mila persone l’anno per le polveri sottili; 10 mila in più o meno manco te ne accorgi. Poi, quando te ne accorgi, al limite fai due giorni a targhe alterne, una fiaccolata e un appello di Matarella e passa la paura, anche perché, grazie ai cantieri del PNRR, il cemento è uno dei pochi settori che avrebbe buone prospettive di crescita nei prossimi mesi, ma con la bolletta più cara d’Europa i soldi rischiano di andare in gran parte in importazioni, nonostante il costo del trasporto.
Per fortuna, tra le imprese c’è anche chi non vuole scaricare tutto sulle tasse e sulla salute dei cittadini e pone un problema reale. Fabio Zanardi, presidente di Assofond (associazione di categoria delle fonderie) interpellato dal Sole 24 Ore, mette a fuoco uno dei due elefanti nella stanza: “Il meccanismo in vigore oggi” e, cioè, quello che fa dipendere il costo dell’elettricità da quello del gas, “non fa che aumentare in modo abnorme i profitti di chi produce energia a basso costo, a partire dalle rinnovabili, e penalizza invece chi deve stare sul mercato con le proprie produzioni”. Per le fonderie, ancora nel 2019 l’energia rappresentava il 19% dei costi totali; ora si raggiungono picchi del 30 e per le 900 aziende e i quasi 30 mila addetti del settore non ci poteva essere momento peggiore: come riportava puntualmente ancora stamattina sempre il Sole, infatti, siamo al 742esimo giorno di fila di calo della produzione industriale.
Intanto le azioni delle aziende energetiche volano, il governo si rifiuta di chiedergli indietro qualcosa per sostenere l’economia reale tassando gli extraprofitti – perché l’intervento dello Stato, per dei fanatici neoliberisti, è giustificato soltanto quando c’è da regalare qualcosa agli oligarchi – e, ovviamente, una bella fetta degli azionisti di riferimento sono proprio gli stessi monopoli finanziari USA che guadagnano speculando sul prezzo del gas. Sempre gli stessi geni che hanno deciso come doveva funzionare il mercato dell’energia, poi, giustamente hanno suggerito al nostro governo di porre fine all’unica cosa che aveva dato ossigeno alla nostra economia negli ultimi anni e, cioè, il superbonus, che ha colpito in particolare due settori di punta della manifattura italiana: le piastrelle, e il vetro che – indovinate un po’? -ovviamente sono industrie energivore, e anche tanto; la bolletta elettrica incide fino al 20%. E ora sono dolori: come ha ricordato un imprenditore del settore del distretto delle piastrelle di Sassuolo, sempre al Sole, “Il dramma è che non esistono alternative al gas per tenere accesi i forni dove cuociamo le nostre piastrelle. Siamo ai minimi produttivi degli ultimi 15 anni, un ulteriore -10% di volumi rischia di mandare in fumo decenni di investimenti e decine di migliaia di posti di lavoro”. Il punto è che per tenere testa al costo del gas hanno stoppato gli investimenti, mentre indiani e cinesi, che hanno già strappato quote di mercato enormi all’Italia, continuano a investire e a crescere, e se “non torniamo a mettere in campo ogni giorno innovazione e ricerca, siamo destinati a una crisi irreversibile”.
Ancora più drastica la situazione del vetro, che impiega altri 25 mila addetti (poco meno della ceramica), ma che ha un problema in più: come ricorda il vicepresidente di Assovetro sempre al Sole, infatti, “La produzione del vetro prevede che i forni restino accesi a ciclo continuo. Se saremo costretti a spegnerli perché la bolletta è insostenibile, causeremo grandi danni agli impianti, tali da impedirne la ripartenza a meno di investimenti molto, molto ingenti”. Insomma: “Spenti i forni, le aziende rischiano di non riaprire più”. Mentre infatti la propaganda filogovernativa ci bombardava un giorno sì e l’altro pure con i numeri record dell’occupazione italiana, nei primi 11 mesi del 2024 la manifattura italiana ha registrato un calo del fatturato di oltre il 3,5%; a dichiararlo è l’ultimo studio di Intesa San Paolo, così drammatico da guadagnarsi la prima pagina del Sole: “Un anno perduto per la produzione e gli investimenti industriali” sottolinea il giornale di Confindustria. L’aggravante è che alla fase complessiva si è aggiunta anche la cialtronaggine del governo dei finti patrioti.
Che la fine del superbonus – che, al netto di tutto, aveva tenuto in piedi l’economia italiana negli ultimi 3 anni – sarebbe stata una mazzata micidiale, era ampiamente prevedibile; ad attutirla però, almeno in parte, ci avrebbero dovuto pensare gli incentivi per la transizione 5.0: per ogni investimento che fai per abbracciare sia la transazione digitale che quella ecologica, il 35% ce lo mette lo Stato sottoforma di credito fiscale. E’ più di quanto non prevedesse il vecchio industria 4.0 che, comunque, aveva indotto a investimenti in macchinari di ogni genere nell’ordine di poco meno di 30 miliardi l’anno. A questo giro, invece, incredibilmente gli incentivi hanno avuto l’effetto opposto: per entrare in vigore, infatti, servivano i decreti attuativi, che sono arrivati soltanto in agosto con 5 mesi di ritardo; e in questi 5 mesi, ovviamente, nessuno sostanzialmente ha investito una lira visto che non avrebbe goduto di nessun sostegno. Quando, nei prossimi mesi, alla fuffa sul boom dell’occupazione si sostituirà quello sul boom degli investimenti, ricordatevelo: non sono nuovi investimenti, ma una parte di quelli che vecchi che sono stati rimandati.
Nel frattempo, invece che a creare lavoro, quei quattrini sono andati a nutrire un po’ di speculazione; come annunciava entusiasta sempre il Sole venerdì scorso, a 6 colonne in prima pagina, Piazza Affari ai massimi dal 2008: “L’indice FTSI MIB sale ancora e supera la soglia dei 37 mila punti. Il massimo da gennaio 2008”. Ci accontentiamo di pochino: nel frattempo, infatti, i principali indici statunitensi, dal Dow Jones allo S&P 500, in media sono quadruplicati e il NASDAQ composite si è moltiplicato di quasi 8 volte. Ciononostante, il fenomeno è piuttosto curioso; mentre ogni singola statistica che usciva certificava performance passate e previsioni future sull’economia reale italiana ed europea costantemente peggiori delle peggiori aspettative, i mercati azionari, per la prima volta dallo scorso gennaio, marciavano più veloci di quelli USA: +9,5% contro appena un +2,8: grazie alla performance di Forrest Trump e alla sfida al monopolio USA dell’intelligenza artificiale che è arrivata dalla Cina con DeepSeek, per la prima volta da anni e anni gli europei sono riusciti a trattenere in Europa una parte dei capitali che regolarmente se ne scappano oltreoceano.
In parte, è anche un riconoscimento nei confronti della classe dirigente europea: di fronte alle minacce protezionistiche di Forrest Trump, qualsiasi classe dirigente al mondo minimamente interessata alle sorti dell’economia che è chiamata a governare avrebbe annunciato misure restrittive per impedire ai capitali di andare oltreoceano e approfittare dei mega-sconti fiscali e delle deregolamentazioni pro miliardari promesse dalla nuova amministrazione USA; in Europa però, incredibile ma vero, non è avvenuto niente di tutto questo. La nostra classe politica ha fatto sapere ai miliardari che per nessuna ragione al mondo è disposta a mettere dei vincoli alla loro libertà di guadagnare quanti più soldi possibile alla facciaccia nostra. Ma non solo: ha anche fatto sapere che farà tutto il possibile affinché anche in Europa ci siano occasioni di guadagno comparabili col bengodi dei mercati finanziari USA.
Nel frattempo, in Europa è partita la grande stagione delle acquisizioni e delle fusioni, a partire dal risiko bancario italiano e dal tentativo di costruire i campioni europei del risparmio gestito, come la joint venture tra la francese Natixis e Generali; insomma: dopo aver guadagnato una montagna di quattrini nei mercati USA, ora che la bolla è così enorme da subire scossoni ogni volta che arriva una brutta notizia, potrebbero esserci ottime opportunità per fare altrettanto anche sui mercati europei. La brutta notizia è che, come dimostrano tutti i numeri che abbiamo visto prima, le ricadute sull’economia reale sono zero: ieri, su La Stampa, in mezzo all’entusiasmo per le palanche che stanno guadagnando in Europa le solite oligarchie alla facciaccia nostra, c’era anche questa tabella
Ricorda che l’Italia è uno dei paesi in Europa dove si lavora di più: 1.734 ore l’anno, 400 in più dei tedeschi. Servi della gleba? Magari… Secondo la sociologa Juliet Schor, i contadini nel Medioevo, in realtà, ne lavoravano poco più di 1400. Ora, io non dico il socialismo utopico, ma ambire a vivere un po’ meglio che nel Medioevo è davvero una pretesa così irrealistica? Per farlo, ci dobbiamo togliere dai coglioni questo esercito di parassiti e, per farlo, abbiamo bisogno di prendere a cazzotti il senso comune dell’egemonia neoliberale con un vero e proprio media che, invece che alle vaccata su chi è più o meno woke, dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Carlo LibroCuore Calenda
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