Cresciuta nella città partenopea, l’attrice ha lavorato con grandi registi come Martone e Corsicato. “Quando arrivo improvvisamente si apre l’esotico. È il luogo dell’infanzia, dell’adolescenza, con tutte le sue bellezze e le sue atrocità, così come Roma ha rappresentato per me l’ingresso nell’età adulta”
È sempre indomita Iaia Forte come Aurora e Libera, due protagoniste di “Libera” (1993), il film cult d’esordio di Pappi Corsicato che la lanciò nel cinema dopo l’esperienza con i leggendari Teatri Uniti di Mario Martone, Toni Servillo e Antonio Neiwiller. E ha le radici ben piantate a Napoli, dove torna spesso anche se da molto tempo abita a Roma. In questo periodo l’attrice napoletana porta in giro per l’Italia lo spettacolo “Vita meravigliosa”, ritratto in versi e musica della poetessa Patrizia Cavalli, scomparsa quasi due anni fa. E nella sua città di origine è ambientato anche “Cinemamuto”, con la regia di Gianfranco Pannone, sulla figura di Elvira Notari, la prima regista cinematografica in Italia. L’attrice è coinvolta in “Elvira 150”, le celebrazioni per l’anniversario della sua nascita, progetto promosso e finanziato dal Comune di Napoli. La rassegna è ideata e organizzata da Parallelo 41 con CSC – Cineteca Nazionale e Cineteca di Bologna. «Di Elvira Notari mi ha colpito il fatto che fosse una grande femminista senza abbracciare alcuna ideologia», esordisce Forte: «A Napoli vige il matriarcato puro: con intelligenza e talento lei è riuscita a guadagnarsi il proprio spazio di regista. Eppure è stata rimossa dalla nostra cultura cinematografica».
Napoli più di ogni altra città insiste sul proprio passato per raccontare sé stessa. Quanto pesa la nostalgia?
«Dipende dalla sua forte identità, basata sulla lingua: l’italiano è sempre stato lingua matrigna, il dialetto lingua materna. Poi c’è un’altra ragione, quasi misteriosa: come diceva Pasolini, Napoli è una tribù che conserva codici precisi che attraversano la letteratura, la musica, il teatro».
Perché il teatro è la forma di espressione ideale per celebrare i miti, gli eroi?
«Torna ancora il tema della lingua. Il napoletano e il veneto sono le due vere grandi lingue teatrali italiane, che hanno determinato la nascita di una drammaturgia specifica. Nel Novecento con Viviani e Eduardo, ma anche dopo, costantemente, a Napoli il teatro è qualcosa di naturale per il pubblico di ogni estrazione, ed è anche misterioso questo desiderio continuo di rappresentarsi. Rispetto ai tempi della sceneggiata c’è stato un imborghesimento, ma tuttora i napoletani vanno a teatro perché fa parte del tessuto sociale».
Lei non si è mai sottratta al fascino di Napoli. Che rapporto ha con la città?
«Quando arrivo a Napoli improvvisamente si apre l’esotico. È il luogo dell’infanzia, dell’adolescenza, con tutte le sue bellezze e le sue atrocità, così come Roma ha rappresentato per me l’ingresso nell’età adulta. È la mia isola di Arturo, come nel romanzo di Elsa Morante, un Eden immaginifico a cui torno come luogo del pensiero. Se molti napoletani che fanno il mio lavoro vanno ad abitare a Roma dipende dal fatto che Napoli è una città doppia: ti accoglie e ti violenta con la sua intensità. È la città di Masaniello, profondamente pagana, tende a creare idoli e a distruggerli».
La città partenopea vive da sempre il contrasto tra la realtà, difficile, e la sua rappresentazione immaginaria. È una contraddizione sanabile?
«Alcuni artisti hanno saputo scardinare cliché accomodanti e luoghi comuni. Penso a Francesco Rosi, in qualche maniera anche a Mario Martone e allo stesso Paolo Sorrentino. Hanno saputo disegnare Napoli secondo contorni più reali e meno edulcorati».
A volte il mito diventa ossessione e sconfina nell’immobilismo. Come se ne esce?
«Sono assolutamente d’accordo. E concordo con Raffaele La Capria, che nel suo romanzo “Ferito a morte” usa Palazzo Donn’Anna, che affonda le radici nel mare, come metafora della città. Questo edificio viene continuamente distrutto dalla salsedine, lui dice che ha lo stesso destino di Napoli. Con una natura così prepotente e ammaliante, che distrugge ogni possibilità della ragione. Non a caso le sirene vengono collocate nel Golfo di Napoli».
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