Nel mondo di Trump, ci vuole la Federazione

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Le dichiarazioni di Donald Trump, nonché del suo amato socio in affari – più che affiliato politico – Elon Musk, sulla Palestina e sull’Ucraina gettano una luce di mal celato sconforto tra le rive dell’Atlantico e del Mediterraneo, almeno per chi ancora possiede qualche briciolo di empatia verso le popolazioni colpite da invasioni arbitrarie e massacri, e da chi vorrebbe vedere non la continuazione dei conflitti, ma il loro estinguersi passo passo. Per quanto dichiarazioni come quella del “Golfo d’America”, sul Canada e la Groenlandia, vadano prese per quello che sono, ovvero strumenti di contrattacco e di scambio con i vicini, ottenendo gettoni politici per le proprie politiche dalla forte deriva autoritaria – come i militari canadesi al confine e i messicani – sulla questione sia di Kiev che della Striscia di Gaza c’è qualcos’altro che bisogna dire.

Iniziamo dalla questione forse più grave, delle due – per quanto sia difficile dire cosa sia peggio – ovvero quella della Striscia di Gaza e le dichiarazioni fatte alla luce della visita dell’indiziato per crimini di guerra Netanyahu alla Casa Bianca. Dichiarare di voler sfollare, a forza, milioni di palestinesi, non è solo una dichiarazione delirante, è anche semplicemente genocida nelle intenzioni. Prima di essere fucilato qui in pubblica piazza, qualcuno potrebbe dire “Sono le sue classiche ‘sparate’, le folli affermazioni che ogni dieci minuti il presidente della prima potenza nucleare fa”. Vero. Potrebbero ricadere nel classico calderone delle “cazzate alla Trump”, ricetta politica che certamente gli ha permesso di avere un secondo mandato e di evitare una lunga serie di procedimenti penali e di conseguenze.

Al contempo, questo tipo di linguaggio non può essere tollerato, non nel mondo civile, non nel mondo contemporaneo che nemmeno due settimane fa celebrava il Giorno della Memoria, né alla luce dei massacri condotti dagli israeliani in Palestina, ma anche da altri attori statali, para-statali, in giro per il pianeta – in Sudan, la Cina con gli uiguri. Non può essere tollerato, e non può rimanere senza una risposta di tipo politico. Risposta politica che non può che provenire da una sola realtà, in questo caso, che è quella europea.

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Affermazioni come quelle di Donald Trump hanno un duplice effetto: da un lato sembrano liberare il campo per azioni non così gravi, ma quasi, in una scala che chiaramente non è davvero una scala lineare, ma che ci è utile per mettere in prospettiva le azioni di questi attori non più statali ma quasi-terroristi. Prendiamo il caso di Gaza, ridotta in macerie da un sorridente primo ministro israeliano – che si trova a casa sua, alla Casa Bianca, anche lui salvato dalla gabbia grazie alla presidenza e al conflitto. Diciamo che Trump non voglia fare sul serio una deportazione di massa. La spara, grande, ma al contempo setta in alto la sbarra delle cose che non si possono fare – come la deportazione -, ma lascia spazio ad una serie di altre azioni altrettanto gravi: controllo diretto degli israeliani della Striscia? Continue vessazioni della popolazione in maniera anche più violenta, ma che comunque saranno inferiori al totale eradicare la popolazione locale?

Abbiamo visto che la strategia comunicativa di Donald Trump, fino ad oggi, è stata alzare il tiro per arrivare a un certo risultato che rientrava in una certa normalità. La [[Groenlandia viene sparata nel discorso perché gli USA hanno un bisogno disperato di assicurarsi il controllo delle rotte artiche e delle risorse che, potenzialmente, vi sono nascoste. Ma ciò non vuol dire che le sue frasi, i suoi atti performativi, non rimangono comunque degli attacchi all’ordine legale, e anche ai limiti del buon senso. Cosa succederà ora a Gaza è un dubbio che rimane e che oscura in maniera tenebrosa il futuro dei palestinesi e il loro diritto a vivere pacificamente e in autonomia la propria terra. Ci torneremo.

Sulla questione dell’Ucraina, invece, ritroviamo di nuovo il classico discorso trumpiano: parliamo con Putin, e se Putin non parla lo faccio parlare io con le maniere forti, ma se l’Ucraina vuole che io faccia tutto questo, deve darmi qualcosa. Questo qualcosa sembrano essere le risorse ucraine – discorso che finalmente esce allo scoperto ma che di fatto ha sottointeso anche tutta l’invasione russa. L’Ucraina non è solo questione di “sicurezza nazionale” per la Russia, ma è anche un campo di risorse utile e un’apertura sul Mar Nero che ne consoliderebbe il controllo a favore di Mosca.

Ora Trump butta le carte sul tavolo, smette di giocare a poker, e lo dice chiaramente: se Kiev vuole le armi, deve pagare. Un do ut des crudele, che si potrebbe per qualcuno definire anche pragmatico, un modo per riuscire a spiegare ai paganti votanti americani perché armi (per ora, solo armi) siano portate in Ucraina. Un modo per far capire all’Europa che il gioco si fa con scambi e che l’America avrà sempre l’upper hand sulla questione, l’ultima parola, prima sia dell’Unione che della NATO – questo almeno finché sarà Washington a essere il fornitore principale, e la sua industria militare il principale pilastro della difesa Ucraina.

Di nuovo, una mossa che, presa con la freddezza non-empatica della mera analisi geopolitica, ha una sua ragione d’essere. Ma siamo andati oltre? Abbiamo fatto qualche passo oltre le guerre per conquista territoriale e a caccia di risorse in un’ottica che ha il sapore neocoloniale, se non quasi da Storia Antica? Certo, tutto ciò che Trump dice e fa sembra essere un modo per generare caos e nel frattempo cercare di riportare il tutto in una orbita controllabile da Washington stessa. Ma di nuovo, il valore dell’azione – anche nella sua forma simbolica, è estremamente importante. Non è solo una questione di cosa si fa, ma anche la postura, il modo in cui lo si comunica, e poi lo si fa, ha un suo intrinseco valore.

Questo non vuole essere un pezzo enorme, sappiamo tutti il caos che Trump ha scatenato, e ne stiamo vedendo l’effetto ad eco che si propaga, come uno tsunami, tra la comunità politica, economica e il mondo sociale. Ora, però, passiamo alla parte propositiva, di policy suggestion, come si direbbe in britannico. Che fare, in questo marasma caotico che è stato scatenato, nel mezzo di queste affermazioni caotiche e solo in apparenza squinternate?

La prima cosa che viene da dire è che c’è un disperato bisogno di fare un fronte compatto contro queste affermazioni, e l’entità che ha il dovere, sia morale che politica, di farlo, è l’Unione Europea. L’UE ha il dovere di prendere ogni affermazione che Trump sta facendo su Gaza e l’Ucraina e metterla al muro, e demolirla. L’Ucraina ha il diritto di difendersi, non l’opzione di difendersi. E questo diritto non può essere comprato a suon di terre rare. In questo caso, lo scopo è combattere non solo la Russia, ma la sua retorica, il suo concetto di just war e anche le radici imperialistiche del suo attacco all’Ucraina stessa. Farne uno scambio di risorse porterebbe soltanto ad una conferma dell’atto russo, negli intenti almeno. L’intervento, pur se difensivo, porterebbe innanzitutto ad una perdita di autonomia dell’Ucraina stessa, e poi al depauperamento delle sue risorse a favore di potenze straniere. Che poi siano potenze asiatiche o europee, quello cambia solo relativamente. Renderebbe l’Ucraina semplicemente un campo di gioco per potenze, che è quello contro cui, anche moralmente, bisogna combattere.

L’UE ha l’opportunità di continuare a supportare l’Ucraina mentre, nel contempo, rinforzare il proprio apparato difensivo a livello industriale, in luce di due azioni strategiche. Da un lato supportare il consolidamento delle posizioni ucraine, al netto della comprensione che, sfortuna vorrà, che ci sono risorse – umane – che non possono essere rimpiazzate se non con un intervento militare diretto che non è che sconsigliato. D’altro canto, anche rimpiazzare e rinforzare i propri armamenti, creando delle strutture che il nuovo piano sul procurement pubblico per la difesa vuole tentare di fare a rinforzo di una difesa realmente europea, anche in termini di mezzi e armi e munizionamento.

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L’Europa deve ritrovare la sua unicità strategica, e anche un proprio ruolo sulle scacchiere geopolitiche. Lo può fare in autonomia, senza diventare la colonia americana o cinese del momento, e senza spacchettarsi in decine di stati che, da soli, non hanno risorse, mezzi e sufficienti forza a cercare di ottenere indipendentemente. L’Ucraina diventa in questo caso un momento ottimo per prendere finalmente coscienza che l’ordine passato si è incrinato, ma che non deve essere gettato del tutto alle ortiche. Perché, difettoso, quell’ordine rappresentava un passo in avanti rispetto il mondo caotico che ha condotto alla Prima e Seconda guerra mondiale.

Questo stesso ordine è quello che deve essere imposto agli israeliani, e quindi usato in chiave non più di dominio, ma di rinforzo dei diritti di chi soffre sotto il peso delle armi e dello sterminio. I palestinesi hanno un diritto inalienabile a vivere. Non sopravvivere, non stentare, non provare, ma vivere. Per vivere, i palestinesi hanno diritto ad uno Stato. Stato che non è Hamas, la cui condizione di sopravvivenza è tale per cui Hamas vive se i palestinesi sopravvivono. Uno Stato che sia loro, esclusivamente loro, con la propria autonomia – che, in un mondo realistico, dovrà essere finanziata e supportata dall’esterno fino alla sua stabilizzazione. Israele anche ha il diritto a vivere. Ma il diritto a vivere di Israele e degli israeliani tutti – ebrei, musulmani, cristiani – non può essere un trade-off con quello dei propri vicini, che siano i palestinesi o i libanesi.

In questo caso, l’UE è in una posizione ancora migliore per supportare i palestinesi, nel momento in cui non si sta parlando di un intervento militare o di generare improvvisamente una industria militare tale da supportare uno sforzo bellico. L’UE, e i suoi stati membri, hanno tutto il set di strumenti a disposizione per rendere Israele compliant, e per intervenire in maniera attiva. Lo può fare sia sotto l’egida ONU, laddove si trovi il modo per ritrovare un proprio spazio d’azione, ma lo può fare anche semplicemente come Unione Europea. Non troveremo qui ragioni pragmatiche per fare una cosa simile, un motivo di risorse, stabilità politica. È solo nella ragione d’essere dell’Unione garantire alcuni diritti inalienabili che, come europei, abbiamo sancito fin dall’Illuminismo. E in conseguenza di quel patrimonio culturale che è un dovere provare, laddove possibile, laddove ciò che non crei ancora più caos, supportare che quei diritti siano garantiti.

La Palestina ora è a un esistenziale bivio. Da un lato, il Medio Oriente sta cambiando in maniera radicale – ad esempio, tramite il cambio di regime in Siria che apre spiragli di speranza, ma anche tanta incertezza. Dall’altro lato, le potenze straniere non-locali hanno diversi interessi nella regione e soprattutto in Suez, distante non così tanto. E come hanno dimostrato i lanci Houti contro i mercantili di passaggio, è una regione ancora vulnerabile da cui l’economia mondiale dipende. Due stati e due popoli rimane l’opzione unica per ora percorribile, alla luce di quanto successo dal 7 ottobre 2023 in poi. Per renderlo vero, c’è bisogno di esercitare un potente effort costruttivo verso Gaza e la Cisgiordania, renderle non più dipendenti da Israele, allontanare i coloni, e fare pressioni affinché tutti i vicini rispettino l’esistenza della Palestina come tale.

Anche vero, entità come Hamas non possono trovare spazio in questa realtà. Perché il loro scopo non sarà mai la stabilità, ma sarà il dominio asimmetrico, l’eliminazione del nemico ad ogni costo, non diversamente dallo scopo attuale della fanatica leadership israeliana. Come gli israeliani hanno il diritto a vivere – e per farlo, dovranno rinunciare a ciò che non è mai stato loro e a disconoscere la propria leadership – così anche i palestinesi dovranno abbandonare Hamas.

Il ruolo europeo è vitale nel creare le condizioni per cui si possa trovare la posizione di stabilità tra le due entità future statali. Un ruolo che gli americani, con dichiarazioni come quella di Trump e lo smantellamento di USAID, non possono ricoprire. Non vogliono, e sicuramente non avranno la credibilità più di fare. Tocca ad altri provare a preservare e rinnovare, in ottica democratica e sotto la luce dei diritti umani, l’ordine mondiale. Non saranno gli USA, non sarà la Russi e nemmeno la Cina. Tocca all’UE, a cominciare dalla sua area d’influenza e di vicinanza geografica – Ucraina e Gaza – a creare la ragion d’essere di un mondo diverso e più giusto.



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