Un naturale mistero – Un blog per l’Insegnamento della Religione Cattolica

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Di Luciano Pace.

Nei giorni scorsi, dedicati al far memoria delle vicende della Shoah, con alcune classi abbiamo impostato un cineforum sul film “Storia di una ladra di libri“. A questo link era già stata pubblicata la scheda di presentazione ed approfondimento appositamente dedicata. Ora, su invito di alcuni studenti, i quali mi hanno fatto saggiamente notare che non è giusto chiedere loro di far qualcosa (ovvero riflettere sul film) senza farlo a propria volta, provo a scrivere qualche mia impressione a seguito della visione. In particolare, intendo suggerire alcune considerazioni sulla narratrice “fuori campo”, ovvero la morte.

Mi è sempre piaciuta l’immagine di me con la falce e il cappuccio, oscura e infallibile. Sfortunatamente, sono più ordinaria e banale“. Così la morte si auto-presenta nel film, prima di andare a “baciare” molti dei personaggi presenti nella storia. In effetti, ascoltando di volta in volta i suoi pensieri, che fanno appunto da narrazione fuori campo, si ha l’impressione che la morte sia un vecchio saggio: si interroga sul significato dell’esistenza umana con grande arguzia. Nella sua saggezza, la morte riconosce di sapere alcune cose degli esseri umani, ma anche di non comprenderne tante altre.

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Per esempio, dichiara di essere certa che la guerra avrebbe portato tutti i soldati fra le sue braccia e non alla gloriosa vittoria sul nemico. Oppure, è sicura del fatto che il senso di ogni vita umana è per lei inaccessibile. La morte riconosce la misteriosità di ciascuna vita e si definisce incuriosita, addirittura “stregata” dal vivere umano. Non sembra, tuttavia, essere molto empatica verso la sofferenza da lei causata agli uomini da cui si sente così attratta. La morte non manifesta sensi di colpa per il dolore che procura a chi la incontra nella perdita dei propri cari ed amati. Nemmeno sembra provare alcun tipo di rimorso rispetto a ciò che i nazisti stanno facendo. Insomma, la sua saggezza la conduce ad essere apatica, priva di emozioni: curiosa, intrigata, ma non premurosa, né tantomeno amante dei mortali.

Forse, questa mancanza di intelligenza emotiva della morte dipende dal fatto che si sente chiamata ad essere imparziale. Lo precisa bene all’inizio del film, quando afferma: “Un piccolo dato di fatto. Voi morirete. Malgrado ogni sforzo, nessuno vive per sempre. Mi spiace fare da guastafeste. Il mio consiglio è… quando arriverà il momento, non fatevi prendere dal panico“. Un consiglio interessante, ma concepibile solo da chi, come lei, è condannato a non sapere mai che cos’è la vita umana. Suggerire a chi è mortale di non preoccuparsi della morte, è come chiedere ad un ricco possidente di non temere i ladri che giungeranno. Per chi si trova nella condizione di essere umano, infatti, la morte genera angoscia, come il filosofo Heidegger ha giustamente messo in evidenza.

Così, mentre la morte presentata nel film è affascinata dal mistero della vita, chi vive la storia è angosciato dalla presenza continua della prospettiva di morte e sterminio propria dei nazisti. Si sente bene la loro angoscia. Ma di che sentimento si tratta? Appunto, del sentimento che mette in contatto con il mistero della propria morte. In particolare, la si prova quando prendiamo sul serio la morte e, di conseguenza, ci accorgiamo che ci è vicina di continuo, come sperimentano i protagonisti del film fin dall’inizio.

E perché la presenza della morte genera proprio angoscia? Perché, suggerisce Heidegger, l’angoscia si prova di fronte a ciò che c’è senza sapere chi o che cosa sia. Attenzione però: questa presa di coscienza non riguarda tanto il concetto di morte in astratto, quello che il filosofo definirebbe il “si muore” in generale, quanto la consapevolezza del fatto che “io sto morendo”. Il morire di ogni essere umano non è l’istante a cui la voce fuori campo del film fa riferimento. Morire è ciò che comincia ad accadere fin dalla nascita e accompagna tutto il corso del vivere, ancor prima che ce ne accorgiamo. La vita autenticamente consapevole è un essere per la morte, un concepire la durata del proprio morire.

Tutto sommato, quindi, la circostanza per cui la saggia morte del film non può comprendere l’angoscia da lei procurata ai vivi la costringe in una sorta di “beata ignoranza” sul senso della vita umana. Ella stessa si rende conto di questo quando afferma: “Nel mio mestiere, trovo sempre la parte migliore degli esseri umani, e quella peggiore. Vedo il loro brutto e il loro bello. E mi chiedo come l’uomo possa essere le due cose insieme“. Per la morte il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto sono nettamente distinti. Non comprende come possano coesistere. La morte ha una mente manichea. La vita umana è più taoista: in lei si abbracciano il bene e il male, in dosi non precisate da nessuna ricetta spirituale.

Se non altro, la morte contempla il miscuglio dell’anima umana con il suo solito distacco. Non è giudicante. Costata un dato di fatto. A questo porposito, la tradizione di fede cattolica può aiutare a decodificare questa imparzialità della morte di fronte al bene e al male agiti dagli uomini. Infatti, per il cattolicesimo, la morte è il mistero che dà inizio alle “realtà ultime” i cosiddetti “Novissimi“. Ella è la prima tra essi, poi ci sono il Giudizio, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Sono detti Novissimi perché sono le realtà più nuove che esistano, quelle di cui non si può sapere nulla di certo prima che accadano. Sono anche le realtà definitive, quelle da cui non si può tornare indietro (N.B. A chi immaginasse che la Resurrezione di Gesù sia un ritorno alla precedente vita mortale, si consiglia la lettura della Prima Lettera ai Corinzi, Capitolo 15, versetti dal 35 al 49).

Che cosa significa che la morte è un Mistero ultimo? Appunto, che da lei non si trona indietro, come non si può tornare indietro fino alla propria nascita (che è un mistero “primo” se così si può dire), con buona pace di Nicodemo che pensava il “rinascere nuovamente dall’alto” insegnatogli da Gesù come ritorno nell’utero materno. Con la morte ha inizio l’inconcepibile per chi è ancora vivo da mortale: uno stato di cose non più reversibile rispetto a questa vita. Le lapidi dei cimiteri sono il certificato di questa irreversibilità, tragici simboli di un’anagrafe diversa da quella che ci ha registrato quando siamo venuti alla luce.

Di fronte alle lapidi, ovvero al cospetto dei certificati di morte, la saggezza antica, quella degli anziani di paese, suggeriva di sospendere ogni giudizio sui trapassati, nonostante si avesse la chiara percezione che alcune vite defunte fossero state più malvagie di altre. Questa sospensione di giudizio, di cui è capace la morte del film, veniva naturale a quei saggi perché conoscevano il secondo dei Novissimi, ovvero il “Giudizio di Dio“, di cui oggi annunciano con più tranquillità i fedeli mussulmani. Ai funerali cristiani odierni, invece, si ha spesso l’impressione che tutti siano quasi automaticamente degni del Paradiso. In effetti, sono due le vie per togliere l’alone di mistero sul Giudizio divino successivo alla morte: supporre che tutti si meritino l’Inferno o, al contrario, immaginare il Paradiso politico, il grande condono alle anime fabbricate abusivamente. Il primo errore era più tipico dei cristiani che furono. Il secondo è squisitamente nostro.

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La misteriosità del Giudizio divino dipende, appunto, dall’essere posti davanti al soppesare la verità di una vita in cui il bene e il male sono coesistiti, almeno un poco. È molto più facile giudicare le singole azioni buone o malvagie. Ma un’intera esistenza umana costellata di entrambe? Quale occhio se non quello di Dio può vederci bene in tal senso? E chi, fra i mortali, può supporre di vederci chiaro tanto quanto Lui? Non a caso, la saggezza cristiana, suggeriva di pregare per i defunti, perché Dio fosse con loro Giusto e Misericordioso. Non si può pregare per l’anima di qualcuno passato all’altra vita, se si suppone di conoscere con certezza il suo destino eterno.

Nonostante questa presa di coscienza sul sospendere il giudizio di fronte al Mistero del Giudizio divino, la morte nel film sembra dare comunque qualche indicazione in merito, seppur fra le righe. Quando, infatti, giunge a prendere l’anima di Hans, il padre adottivo della ladra di libri, commenta così l’istante: “La sua anima era più lieve di quella di un bambino“. Da che cosa dipendeva tale leggerezza?

Considerando il racconto, la storia di Hans è quella di un padre gentile, con il solo piccolo vizio di alzare un po’ il gomito ogni tanto. Non si era iscritto al partito nazista per scelta e, quindi, non trovava lavoro pur essendo tedesco. Amava la musica e suonava la fisarmonica di un amico, anche sotto i bombardamenti degli aerei Alleati. Era un uomo di parola: ha nascosto nella sua cantina Max l’ebreo, figlio di quell’amico, per tener fede alla parola datagli in punto di morte. E poi… pregava! In una scena toccante, infatti, Hans, in lacrime fra le braccia della moglie Rosa, supplica Gesù Crocifisso di proteggere lui e la sua famiglia. Il motivo: a causa del suo tentativo di difendere un amico prelevato con forza dal suo negozio dalla Gestapo con l’accusa di essere ebreo, viene anch’egli schedato come sospetto.

Insomma, la morte scorge in Hans la leggerezza tipica di una vita canterina, pacifica e dedita alla bontà, nonostante la sofferenza subita a motivo della giustizia. Una leggerezza simile a quella san Francesco d’Assisi che, scrivendo il “Cantico di Frate Sole“, chiamò “sorella” la morte corporale. A quanto pare, il santo di Assisi aveva compreso che l’angoscia della morte corporea può essere placata solo dalla fede in Cristo. Come? Per il fatto che questa fede dirige l’attenzione su un’altra morte, la “morte seconda“, quella dell’anima. Rispetto ad essa, Francesco notava verso la fine del suo Cantico: beati (cioè contenti, felici, gioiosi) saranno coloro che morranno senza peccati mortali, così che non subiranno il male di questa morte seconda, ovvero l’Inferno.

Per quale motivo i beati si sentiranno pacifici e leggeri? Perché temono l’Inferno? Non sembra questa la risposta più convincente. Stando ancora a san Francesco, ciò che rende sereni i morenti è sapere che, all’arrivo della morte del corpo, questa lì troverà “ne le tue santissime voluntati“, ovvero, parafrasando un po’ a braccio, nella consapevolezza di aver conservato l’amore verso Dio e verso il prossimo per amor Suo. È tale consapevolezza che permette loro di non farsi prendere dal panico all’arrivo della morte.

Ecco: la morte del film ha trovato l’anima di Hans priva di peccati mortali. Tuttavia, il merito non è della morte: nella vita mortale di Hans era presente una Vita più sottile e pura che la morte non può eliminare. Questa Vita è il dono che Hans aveva custodito e coltivato nel suo animo gentile e generoso, per amore verso Dio che gliela aveva donata. Un dono che risalta particolarmente in un contesto come quello della Germania nazista, nel quale, come il film testimonia bene, molti non sembrava avessero più ben chiaro in che cosa consiste davvero la volontà di Dio, che rende beati i cuori di fronte al mistero della morte naturale. Cosa sono, in effetti, i campi di sterminio se non l’orribile e cristallino simbolo del disprezzo di alcuni verso il mistero della morte e, di conseguenza, della dignità della vita umana?

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