Il governo vuole trasformare i centri in Albania in Cpr: centri per il rimpatrio ove i migranti privi dei requisiti per ottenere l’asilo sono tenuti in uno stato di detenzione amministrativa, in attesa dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione. Ma l’espediente presenta problemi in punto di diritto
«I centri in Albania funzioneranno», aveva scandito Giorgia Meloni ad Atreju, nel dicembre scorso. Per cui, dopo la terza bocciatura da parte dei giudici di Roma, il governo ora vuole trasformare il progetto originario.
Era previsto che i centri fossero utilizzati per le procedure accelerate di frontiera, vale a dire per accertare, entro il termine massimo di quattro settimane, se i migranti trovati in acque internazionali da navi militari avessero diritto alla protezione internazionale.
L’idea ora è quella di adibire tali strutture a Cpr. Si tratta di centri per il rimpatrio, ove i migranti privi dei requisiti per ottenere l’asilo sono tenuti in uno stato di detenzione amministrativa, in attesa dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione.
I CPR
Nel settembre 2023, un decreto-legge (n. 124) ha esteso sino a 18 mesi il tempo massimo di trattenimento nei Cpr. In particolare, la permanenza è prevista per tre mesi, prorogabili per altri tre qualora vi siano difficoltà nell’accertamento dell’identità e della nazionalità o nell’acquisizione di documenti di viaggio. I sei mesi possono essere prorogati per altri dodici, nei casi di mancata cooperazione da parte dello straniero o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi.
In base a una legge del 2015 (d.lgs. n. 142), nei Cpr può essere trattenuto non solo chi sia destinato al rimpatrio, ma anche il richiedente asilo, ad esempio, quando sia accusato di gravi crimini e costituisca «un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica» o se comunque «sussistono fondati motivi» per ritenere che sia pericoloso oppure, tra l’altro, quando vi sia «il rischio di fuga».
Rimpatri e Protocollo con l’Albania
Il Protocollo Italia-Albania stabilisce che l’accesso e la permanenza dei migranti negli appositi centri sono consentiti solo «al fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea». Dunque, i rimpatri sono già contemplati dal Protocollo, per cui non sembrerebbe preclusa al governo la possibilità di adibire i centri a tale utilizzo. Ma a parte che l’attuale normativa Ue (direttiva 2008/115) non prevede centri di rimpatrio in paesi terzi, ci sono ulteriori problemi in punto di diritto.
Gli eventuali rimpatri indicati nell’accordo con l’Albania sono quelli da effettuare a seguito della procedura accelerata di esame del diritto all’asilo – l’unica che, ai sensi dell’accordo stesso, può essere svolta in territorio albanese – qualora essa abbia esito negativo. Per operare rimpatri dall’Albania basati su procedure diverse non basterebbe un decreto-legge del governo. Servirebbe, infatti, una modifica del Protocollo, nonché una nuova ratifica da parte del Parlamento. Prima che tutto questo avvenga, i giudici potrebbero non convalidare il trattenimento nei centri albanesi.
Peraltro, anche a voler ammettere la possibilità che i migranti siano portati in Albania per i rimpatri, i centri si riempirebbero velocemente per la difficoltà di procedere ai rimpatri stessi, riscontrata ormai da anni. Verrebbe a mancare il ricambio di stranieri previsto originariamente ogni 28 giorni, durata massima delle procedure accelerate di frontiera. I centri albanesi finirebbero per ospitare anche per un anno e mezzo circa un migliaio di persone, capienza massima dei centri stessi, anziché le circa 10.000 stimate annualmente, in base al progetto originario.
Peraltro, ove il rimpatrio non avvenisse nei 18 mesi previsti, i migranti dovrebbero comunque essere rimandati in Italia. L’operazione albanese sarebbe ancora più economicamente insostenibile di quanto non lo sia oggi. A spese dei contribuenti italiani, come sempre.
Altri dubbi
Dubbi ancora più consistenti si porrebbero qualora i Cpr albanesi fossero adibiti al trattenimento non solo degli stranieri avviati all’espulsione, ma anche di richiedenti protezione internazionale che si trovino in una delle situazioni indicate dalla citata legge del 2015.
Il Protocollo con l’Albania, infatti, si fonda sulla finzione giuridica di considerare i centri di Shengjin e Gjader come territorio italiano, ai fini dello svolgimento di procedure di frontiera per la valutazione del diritto all’asilo. Tale finzione non potrebbe supportare l’applicazione di procedure diverse, e anche in questo caso i giudici potrebbero sollevare problemi di legittimità.
In conclusione, il ricorso del governo a un espediente che consenta di riempire i centri albanesi, snaturando l’operazione tanto declamata, ne attesta il fallimento. Fallimento, comunque, già chiaro in precedenza.
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