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Prima un influente ministro dell’attuale compagine governativa, poi la Fondazione Luigi Einaudi, hanno di recente proposto il ripristino dell’immunità parlamentare, così come era stata ideata dai Padri Costituenti. L’ipotesi di una riforma costituzionale limitata all’art. 68 non può essere bollata semplicemente come una pretesa di impunità della politica, ed anzi, nell’attuale temperie storica, merita di essere presa in seria considerazione.
Originariamente, questo articolo prevedeva un’immunità ben più ampia di quella attuale, con il Parlamento che doveva autorizzare anche l’avvio delle indagini su un parlamentare, onde evitare – anche solo in astratto – l’interferenza dell’autorità giudiziaria nell’attività legislativa: si trattava di una immunità (temporanea), non di una impunità (definitiva). Sull’onda di Tangentopoli e della crisi della Prima Repubblica quasi tutto l’arco partitico accondiscese a restringere il perimetro di operatività della c.d. «autorizzazione a procedere»: nel 1993 si modificò dunque l’art. 68 con grandi promesse di un «nuovo corso» della politica. In realtà, è storicamente accertato che i partiti in declino, in quel contesto, si giocarono l’ultima carta per rimanere a galla: la riscrittura della Costituzione, attraverso cui tentare una (disperata) operazione di immagine: l’operazione non riuscì, e quella classe politica fu comunque spazzata via nel giro di pochi mesi.
Eppure, l’istituto dell’immunità parlamentare aveva garantito fino a quel momento, e per quasi cinquant’anni, l’equilibrio tra i poteri dello Stato: quello esecutivo/legislativo da un lato, e quello giudiziario dall’altro; e non a caso quella che oggi viene definita «la guerra dei trent’anni» (parole dell’influente ministro di cui sopra) si inaugura con l’invito a comparire per corruzione recapitato a Berlusconi nel 1994, durante un importante summit internazionale.
Tutti gli storici – perché questa, ormai, è storia – concordano: quell’ episodio giudiziario fu dirompente per la già gracile (nuova) vita politica italiana; e in ogni caso non si sarebbe potuto verificare con la previgente versione dell’art. 68. Si verificò, invece, inaugurando lo scontro – trentennale, appunto – tra politica e magistratura.
Adesso ci si muove in un quadro carico di tensione, in cui la compagine governativa ritiene compromesso l’equilibrio tra i poteri, essendosi la magistratura appropriata di indebiti compiti di moralizzazione della politica: ma se così anche fosse, si rifletta – ancora – sul momento della vita repubblicana in cui si diede la stura a questa inopinata tendenza. L’attuale maggioranza vorrebbe quindi porre rimedio: ma anziché ripristinare lo status quo ante, intende riscrivere l’intero assetto del potere giudiziario, procedendo – a colpi di maggioranza – alla più grande operazione di modifica della Costituzione della storia repubblicana. Se nel 1993 fu la politica a cedere il passo, adesso devono essere erose ben più ampie porzioni del potere diffuso della magistratura: questo il retropensiero (non più tanto retrostante, per la verità) della riforma, che ha già superato la prima votazione parlamentare.
Nè si può francamente dubitare che potrebbe essere questo il principale effetto del percorso riformatore in atto: nel momento in cui si delegittima, se non altro al cospetto degli altri organi costituzionali, il Consiglio Superiore della Magistratura (sdoppiandolo; rendendolo un consesso di «sorteggiati»; privandolo della sua principale potestà, quella disciplinare), nel momento in cui si sgancia dalla comune giurisdizione il pubblico ministero per collocarlo chissà dove, e chissà se ancora sotto l’ombrello costituzionale, di sicuro più a portata di mano del potere esecutivo, la magistratura italiana – già esposta, sui media, ad un serrato fuoco di fila volto a minarne la credibilità – rischia di perdere irrimediabimente quel prestigio istituzionale che gli ha consentito fin qui di esercitare correttamente le sue funzioni, poste a fondamento dell’ordinata vita democratica del Paese. Magistratura (sempre più) debole, politica (sempre più) forte: ecco servita sul piatto la nemesi dell’improvvida riforma del 1993; ecco servito un pericoloso squilibrio tra poteri, anticamera di ben più pericolosi squilibri. E un potere giudiziario debole non giova a nessuno, se non al governante di turno: vedere alla voce «trumpismo – ultima edizione»; mentre i diritti dei cittadini, in questo gioco al ribasso, rimarrebbero stritolati nel mezzo.
L’ipotesi di una riforma costituzionale limitata all’art. 68 deve dunque essere presa in seria considerazione, perché ripristinerebbe quell’equilibrio fra i poteri che ha garantito – pur con fisiologici sussulti – la tenuta del Paese (che in quei cinquant’anni, dalle macerie della guerra, è arrivata a sedere tra le sette potenze del mondo – anche questa, è storia, e la storia va vista nel suo complesso); purché, s’intende, sia l’unica riforma in cantiere.
Guardiamo a quello che sta accadendo nel mondo, e al modo in cui alcune democrazie occidentali si stanno evolvendo, e non in meglio; e teniamoci stretti la nostra cultura costituzionale, finché siamo in tempo. È un salto nel buio stracciare tutta la parte della Carta dedicata alla magistratura e riscriverla: molto meglio ricucire uno strappo, e tornare integralmente alle idee di quei Padri Costituenti che, avendo vissuto sulla propria pelle la dittatura e la guerra, sapevano elaborarne gli anticorpi meglio di chiunque altro.
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