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L’economia e le donne: in cerca dell’equità di genere #finsubito prestito immediato

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Che tipo di economia avremmo se l’economia si accorgesse delle donne? Se ammettesse che fino a ora i suoi modelli sono stati incentrati sugli uomini, ovvero su una parte dell’umanità considerata come il tutto? Se fosse un’economia più giusta e inclusiva? I Paesi che registrano un’equità di genere maggiore crescono più velocemente degli altri, ormai è noto. Conquistano anche una migliore qualità della vita a vantaggio di tutti i cittadini, non solo delle donne, e costruiscono società più unite e resilienti: è l’Eige, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, a prendere le misure, uno per volta, dei vantaggi di una società che mette i generi alla pari.

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La parità fa crescere il Pil

Limitandosi al Pil, l’Eige sostiene che entro il 2050 in area UE una migliore eguaglianza tra i generi contribuirebbe a fare aumentare il Pil pro-capite come minimo del 6,1 e il valore potrebbe arrivare a un tetto massimo del 9,6 per cento. Tradotto in valuta si tratterebbe di una crescita di 1,95-3,15 trilioni di euro: tale aumento, spiegano i ricercatori, dipenderebbe principalmente dal miglioramento del tasso di occupazione delle donne e della loro progressione in lavori più produttivi nei settori Stem.

Del resto, Claudia Goldin, che nel 2023 ha ricevuto il Nobel per l’Economia proprio per le sue ricerche sul mercato del lavoro femminile, per l’intera sua vita di studiosa ha analizzato le differenze di genere e il loro intreccio con lo sviluppo economico, dimostrando come le diversità e le disuguaglianze tra i generi siano chiavi determinanti per capire l’evoluzione economica.

Da dove partire, dunque, per costruire un’economia equa ed efficiente che tenga dentro le donne? Un’economia giusta che ne guardi in faccia tutti i talenti, ne spinga il lavoro, che liberi le potenzialità femminili oggi intrappolate nel doppio impegno casa-professione e che, magari, porti in sé un’idea più ampia di equità, capace di partire da quella tra donne e uomini per propagarsi oltre?

Dettagli, messi ben a fuoco

«La teoria economica più in voga non è imparziale rispetto al genere, come tendenzialmente si è portati a credere, ma centrata sul modello dell’homo oeconomicus, uno standard costruito sul maschile che pretende di rappresentare tutte le persone. Nella realtà, i singoli soggetti, anche sul piano economico, non sono affatto tutti uguali. È come se l’economia scattasse una fotografia messa a fuoco molto bene, ma di una parte estremamente piccola dell’umanità» spiega Marcella Corsi, professoressa ordinaria di Economia presso il dipartimento di Scienze Statistiche di Sapienza Università di Roma.

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«L’economia del Novecento, infatti, ha puntato a semplificare la realtà, a razionalizzarla riducendo le variabili: di conseguenza, ha prodotto una rappresentazione sempre più astratta e teorica di ciò che noi viviamo quotidianamente, una rappresentazione che ha perso di vista le diversità, in primis quella tra uomini e donne. Dunque, le donne sono diventate invisibili» aggiunge Corsi, che è anche tra le fondatrici di Ingenere.it, web magazine di informazione su temi economici e sociali letti in chiave di genere. «Se vogliamo cambiare l’economia dobbiamo accettare di lavorare su due “R” quelle di “realismo” e “rigore”, dove rigore significa dare forma ai modelli economici ricorrendo a dati robusti, solidi, misurabili nel tempo».

Una giovane madre si destreggia tra il lavoro e il figlio piccolo (Getty Images)

Dalle parole ai fatti

Avere un approccio sistemico di genere alle dimensioni della vita di ogni giorno per realizzare concrete politiche che contrastino le disuguaglianze è tutt’altro che un’utopia. Esistono, e da tempo, soluzioni molto pragmatiche a disposizione di chi amministra le città, per esempio, così come le università, e che puntano esattamente a fare sì che gli interessi di uomini e donne siano visibili e tenuti in considerazione equamente.

«Già nel ’95, la quarta conferenza mondiale delle Nazioni Unite di Pechino ha sollecitato tutti i Paesi ad agire per raggiungere la parità di genere basandosi su due pilastri, il cosiddetto “gender empowerment” e il “gender mainstreaming”, strategie che si stanno affermando, ma troppo lentamente» dice Giovanna Badalassi. Lei è esperta in valutazione, ricerca e analisi statistica delle politiche di pari opportunità, genere e welfare, autrice insieme a Federica Gentile del blog Ladynomics e coautrice di Signora Economia (Le Plurali).

«Gender empowerment significa adottare politiche e investire soldi con l’obiettivo specifico di colmare disuguaglianze riconosciute tra uomini e donne, ad esempio per incoraggiare le ragazze a fare studi Stem, ovvero in aree che soffrono molto la mancanza di talenti femminili. Rispetto a ciò, il Gender mainstreaming è un salto di qualità: significa costruire parità di genere andandola a cercare in tutte le politiche che vengono decise nel Paese, politiche che non riguardano le donne in modo esplicito, ma l’intera comunità».

In sintesi, «il decisore che applica questa strategia deve di volta in volta considerare che impatto possano avere sugli uomini e sulle donne i singoli atti che va definendo, e dunque la spesa pubblica, poiché oramai sappiamo bene che, nonostante i cambiamenti degli ultimi due secoli, uomini e donne vivono ancora dimensioni di vita, anche economiche, differenti: dunque lo stesso atto pubblico può impattare in maniera molto diversa sulla vita di una donna rispetto a quella di un uomo. Se si sanno leggere le differenze, si riesce anche a prevenire le disuguaglianze».

L’Italia e i bilanci di genere

Lo strumento d’elezione di questo processo è il cosiddetto bilancio di genere e forse stupirà sapere che l’Italia è, tra i Paesi europei, quello con la maggiore diffusione a livello territoriale: dal 2002, quando è stato presentato il primo, si è arrivati a quota 200 circa, redatti da Comuni, Province, Regioni, ma anche Università e Camere di commercio. «Il bilancio di genere è uno strumento tecnico: perché si riducano le disuguaglianze occorre la volontà politica di adottare in modo strutturale e sistematico la prospettiva di genere nelle decisioni di bilancio» continua Badalassi, che proprio dei bilanci di genere è tra le maggiori esperte in Italia.

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Lo scorso maggio a Roma, il W7, il gruppo internazionale di impegno civile sulle pari opportunità formato da esperte di 42 Paesi che affianca il G7, ha consegnato al Governo italiano un documento da portare al vertice delle sette nazioni più industrializzate che insisteva, tra l’altro, proprio su questo: porre l’uguaglianza di genere al centro delle decisioni che riguardano gli investimenti, disegnando nuovi modelli economici inclusivi, lungimiranti, veramente innovativi, capaci di interpretare le diversità delle ragazze e delle donne.

Il W7 ha sollecitato i Governi a investire in dati di genere nelle aree del lavoro, dell’intelligenza artificiale, della violenza di genere, della giustizia economica e di climatica. A luglio a Roma 750 economiste, accademiche, professioniste provenienti da 85 Paesi si sono incontrate per la conferenza annuale – la più partecipata di sempre – della Iaffe, l’Associazione internazionale per l’economia femminista, che da una trentina d’anni persegue una ricerca attenta al genere e all’inclusione, che punta a costruire parità e benessere per tutte le persone.

«In economia, il concetto di lavoro viene interpretato esclusivamente in chiave retributiva: è lavoro ciò che viene retribuito. Ma anche questa è una lettura parziale» spiega la professoressa Corsi, che è anche coordinatrice di Minerva, il laboratorio su diversità e disuguaglianze economiche che ha co-organizzato l’incontro.

L’approccio femminista

«Infatti, esiste una dimensione fondamentale nella vita che è data dal tempo – non retribuito – di chi esegue il lavoro domestico e di cura: seguire la crescita dei figli, tenere in ordine la casa, curarsi dei genitori che invecchiano, sono lavori che l’economia in genere non considera e non rende visibili, eppure fanno la differenza, perché si riverberano in ogni altra dimensione profonda della vita dalla salute al livello di reddito, alle scelte di procreazione» dice l’esperta.

La relazione al centro

«Lo sguardo alternativo dell’economia femminista parte dallo studio dell’uso del tempo, riconoscendo che esiste una disuguaglianza importante tra uomini e donne e che, dunque, vanno ridefiniti i ruoli, a partire dalla casa» esplicita la docente ed economista. «Il secondo pilastro dell’economia femminista è la cura, intesa nell’accezione anglosassone di care, dunque non solo come servizi di cura dei bambini o degli anziani, ma come attenzione costante per il mondo, in primo luogo per l’ambiente. Questo nuovo sguardo sul mondo originato dalla cura mette al centro la relazione tra le persone, una relazione che origini benessere, fuori dallo scambio, dal denaro, dal profitto. L’economia femminista guarda alla cura come base di un nuovo paradigma economico. E questo è veramente rivoluzionario» conclude Corsi.

Le donne al potere e la parità

Quali elementi promuovono le pari opportunità e quali situazioni frenano un processo ormai in atto? Lo abbiamo chiesto all’economista femminista Francesca Bettio, docente all’Università di Siena.

«Per un’economia favorevole a uomini e donne vanno costruite pari opportunità di partenza, in un contesto in cui la completa assenza di discriminazioni sia garantita dalle istituzioni» esordisce l’economista femminista Francesca Bettio, docente di politica economica all’Università di Siena. «Richiamando l’economista Amartya Sen, più che eguaglianza il traguardo dovrebbe essere la capability, cioè la capacità di essere o di fare quanto si vuole essere o fare».

Le donne di potere possono favorire un’economia più equa? E quanto?
«Non dobbiamo illuderci. Le donne ai vertici in politica sono poche, ed essere donna in posizione di potere non significa di per sé usare il potere per volgere l’economia in direzioni che, nel medio e lungo periodo, favoriscano la parità. Invece, purtroppo, sta passando l’idea che poiché più donne oggi sono al potere, la parità è prossima».

A quali emergenze una leadership femminista dovrebbe lavorare?
«A quella salariale, anzitutto, di cui le donne sono le prime a soffrire. Poi all’aumento dell’occupazione femminile, specie al Sud, e al contrasto del lavoro nero».

Perché, in Italia, è così difficile scardinare economie famigliari e di Paese basate su una divisione del lavoro tra i generi così stereotipata?
«Perché resiste il privilegio maschile di una divisione del lavoro che mette quello di cura – gratuito, svalutato o non considerato – sulle spalle delle donne. Perché gli uomini dovrebbero avere voglia di cambiarlo? Quanto alle politiche pubbliche, visto che le risorse sono limitate, la disponibilità di tempo delle donne nella cura incoraggia chi decide ad allocare le risorse altrove».

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Il cambiamento è solo questione di tempo?
«Sì. Ma la storia non è necessariamente lineare. Il rischio di tornare indietro è da mettere in conto»

iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA





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