Il ripasso di Storia che serve per capire quanto conta la Corte dell’Aja

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I giudici della Corte dell’Aja riuniti per la decisione presa qualche mese fa sui crimini di guerra commessi da Israele a Gaza – Ansa

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«La natura non permette che i crimini rimangano impuniti: a essa devono essere riferiti i crimini commessi contro il diritto delle genti», scrive Ugo Grozio nella sua celebre opera “Sul diritto della guerra e della pace” (1625). E con “natura’”, il grande giurista intendeva la legge naturale, ovvero quelle regole che la retta ragione suggerisce all’essere umano, indipendentemente dalla sua identità e dal luogo in cui si trova. Il “diritto delle genti” è poi l’estensione universale delle norme concordate sulla base della riflessione precedente, ovvero il diritto internazionale moderno. Sta in questa tradizione razionale e umanitaria la radice di quella straordinaria realizzazione, quattro secoli dopo, che è la Corte penale internazionale. Ci sono voluti quasi 400 anni per arrivare a tale risultato, che è eccezionale e ammirevole per il principio, ovviamente, e non per la concreta attuazione, sempre soggetta, come tutte le cose umane, a errori e imperfezioni. Non si può che salutare infatti come irrinunciabile il principio per cui vi sia una giustizia per crimini gravissimi che vada oltre i confini degli Stati – quando questi non possono o non vogliono perseguirli – e che punisca i singoli responsabili, basandosi sull’idea di dignità umana universale e necessità di proteggere i più vulnerabili. In questo senso, la Cpi è stata l’espressione più alta, il vertice forse, dell’ordine liberale multipolare postbellico e post-Muro di Berlino. Quando nacque, con il Trattato di Roma, nel 1998, il mondo sembrava pronto ad avviarsi verso la condizione che qualcuno definì “fine della storia”, intesa quale superamento del continuo scontro tra visioni inconciliabili del mondo e dei suoi abitanti. Non è stato così, lo sappiamo bene.

Oggi sembriamo regredire, incapaci di difendere quelle conquiste che avrebbero potuto essere motivo di orgoglio per l’umanità, sebbene la Corte penale sia nata incompleta, priva dell’adesione di Paesi grandi o strategici come Stati Uniti, Russia, Cina, India, Indonesia, Pakistan, Turchia e Israele. La maggioranza degli Stati la sostiene, ma essa ha giurisdizione diretta solo sul 50% della popolazione globale (anche se chiunque può essere perseguito nel caso si macchi di reati in Paesi membri). Perché oggi la Cpi è sotto attacco e rischia di essere indebolita e delegittimata nel lungo periodo? Vi sono le ragioni politiche che hanno fin dall’inizio tenuto lontane nazioni pur diverse per orientamento ideologico e grado di democrazia. Esse vogliono preservare la sovranità nazionale come valore intangibile e proteggere i propri cittadini quando si rendono responsabili di crimini nell’interesse del proprio Stato (così, per esempio, Putin e Netanyahu interpretano le azioni militari che li hanno portati all’incriminazione, al di là della sostanza delle specifiche accuse, ancora da verificare). Con l’ascesa di governi sempre più nazionalisti, anche in Occidente l’idea di una giustizia sovranazionale è stata messa in discussione con maggiore forza. L’opposizione trova vigore nel non essere i critici più soli e isolati; anzi, riescono a fare blocco, capeggiati da Donald Trump, che addirittura ha deciso sanzioni contro la Cpi. D’altra parte, la gestione della Corte dell’Aja non è stata esente da critiche. I giudici sono chiamati a svolgere il proprio lavoro senza guardare in faccia nessuno, per mirare a quell’imparzialità che li deve contraddistinguere.

Considerando la fragilità dell’istituzione nelle sue fasi iniziali, una maggiore prudenza politica avrebbe potuto rafforzarne l’azione. Il fatto che la Cpi abbia messo sotto accusa i vertici di Mosca, Tel Aviv e i nuovi padroni dell’Afghanistan, mentre da vent’anni non riesce a portare in tribunale nemmeno Joseph Kony, leader delle milizie ugandesi, è stato considerato da molti un azzardo. Perché la probabilità di vedere alla sbarra il capo del Cremlino, il premier dello Stato ebraico e i leader di Kabul resta molto bassa, mentre il contraccolpo per i provvedimenti è stato fortissimo. Dispiace, in ogni caso, vedere che il governo italiano, per la mal gestita vicenda del generale libico Osama Almasri, si ponga adesso tra i nemici della Cpi. Si può contestare la conduzione di un singolo caso. Metterne in discussione l’operato e delegittimarla significa però minare il diritto internazionale stesso. E affossare quell’aspirazione a una giustizia universale che è compagna indispensabile della pace e della convivenza rispettosa fra le nazioni.





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