Alexandra Makarova, «la forza di Perla nelle donne in Ucraina e a Gaza»

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Come il personaggio del suo film, presentato nel Tiger Competition del Festival, che si chiude oggi, Alexandra Makarova vive a Vienna, è nata in Cecoslovacchia, lavora con le immagini. E sua madre è un’artista. Le corrispondenze esplicite forse non si fermano qui, anche se Perla – il titolo rimanda al nome della protagonista – non vuole essere un racconto autobiografico, come ci dice Makarova nella nostra conversazione; piuttosto guarda al suo vissuto e a quello delle donne nella sua famiglia, ai ricordi di persone che ha incontrato o che le sono vicine, soprattutto in quel grumo che la donna si porta dentro e che allude ai traumi vissuti durante l’invasione di Praga, nel ’68. «Mia nonna che era giornalista mi ha parlato spesso di una sua amica fotografa, aveva scattato molte foto quando sono arrivati i sovietici in città, e le aveva consegnato i rullini chiedendole di conservarli. Il giorno dopo si è suicidata, un gesto che purtroppo è stato di molti».

Perla (la bravissima attrice Rebeka Polakova), pittrice riconosciuta e madre single di una figlia con uno speciale talento per la musica, si muove dunque fra la dimensione privata e quella collettiva, la storia di un paese e le dinamiche sociali dell’oppressione affermando una forma di «resilienza» femminile.

Iniziamo da qui, si è parlato in questi giorni delle difficoltà che le registe continuano a incontrare nel loro lavoro, per avere i finanziamenti, girare le loro storie ecc. Per lei è stato complicato produrre questo film?

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Alexandra Makarova

Il maggiore ostacolo è stata la sceneggiatura, sin dall’inizio ho notato che la maggior parte degli interlocutori, uomini ma anche donne, avevano dei problemi con la figura di Perla perché è una madre ma il suo modo di agire non corrisponde all’idea diffusa di come una madre deve essere. Dovevo sempre difenderla, sapevo che a volte le sue decisioni appaiono irrazionali per la figlia e per sé stessa, ma quando un uomo fa delle scelte va sempre bene, se invece a farle è una donna che è madre allontanandosi dal senso comune infastidiscono. Mia madre è una pittrice, le donne della mia famiglia hanno cresciuto da sole i loro bambini ma questo non gli impediva di seguire le proprie aspirazioni. Oggi la vita delle donne della mia generazione ruota intorno ai loro figli, anche io ho una figlia ma se mi dimenticassi di me stessa non sarebbe un bene per lei. Mia madre quando ero piccola frequentava delle persone, si facevano sempre delle feste, era del tutto normale. Per quel che riguarda il budget invece una volta superato questo punto non ho avuto particolari problemi, e neppure nella realizzazione del film. So anche che se fossi stata un uomo diverse persone della produzione si sarebbero comportate diversamente.

Le nomination di quest’anno agli Oscar, con una sola regista, ci dicono che c’è molto da fare, negli Usa nonostante quasi dieci anni di movimento Me Too all’interno della grande industria lo spazio per le registe appare ancora ristretto.

È una delle ragioni che mi crea qualche problema con questo tipo di «woke culture», le grandi produzioni sono ora costruite su dei topics – un personaggio di donna, uno queer, uno black ecc – ma è cambiato davvero qualcosa nel sistema? O siamo soltanto in una bolla? I fatti a mio avviso dicono che forse si dovrebbe lavorare insieme invece di puntare il dito gli uni contro gli altri per fare fronte a quello che continua a essere la modalità dei poteri. Ieri, per fare un esempio, mi ha colpita che alla fine della discussione in sala dopo il film, due donne del pubblico sono andate dal moderatore dicendogli che non aveva il diritto di parlare di questioni femministe in quanto uomo. Lo trovo assurdo, per andare avanti ci si deve confrontare insieme.

«Perla» è ambientato nella Cecoslovacchia degli anni Ottanta, perché ha scelto proprio quel periodo?

Il partito comunista si è affermato alla fine della guerra, nel decennio successivo gli stalinisti hanno arrestato moltissime persone, era un periodo buio e pericoloso. Negli anni sessanta c’è stata un’apertura, Dubcek ha cercato di mettere in atto dei cambiamenti, di allontanarsi un po’ dall’Unione sovietica, finché l’Unione sovietica ha chiuso la Primavera di Praga coi carri armati. A questo ha seguito una fase nuovamente molto cupa di repressione. Poi negli anni Ottanta la realtà è cambiata di nuovo, c’era la sensazione che il controllo si stava allentando, era un tempo di luce e di ombra, e questo mi piaceva. Non mi interessava lavorare sull’epoca stalinista, e poi volevo qualcuno che come Perla ha vissuto il Sessantotto, che era giovane allora, con una sua idea di futuro finita da un giorno all’altro.

Quale è stato il punto di partenza per la figura di Perla?

Chi ha lasciato il proprio paese era un po’ diverso dagli altri, vive un profondo sentimento di perdita che ho provato a restituire in ogni suo gesto, quando dipinge, mangia, ama. Il paese dell’infanzia te lo porti sempre dietro, c’è una forza che ti spinge a ritornare. Sono nata nel 1985, ho abitato in Cecoslovacchia coi miei nonni fino alla caduta del Muro, appena ho potuto sono voluta tornare. Durante il montaggio ho capito che Perla è molto resiliente, magari la sua è anche una strana follia, chissà. Non mi interessava però un personaggio di donna forte dogmatico, o una specie di Wonder Woman: la forza di Perla è qualcosa che oggi vedo nelle donne a Gaza che cercano di sopravvivere e di dare ai loro figli una speranza. O che ho visto nelle donne ucraine andate via con la guerra per crescere i loro figli altrove spesso da sole. Mi è sempre interessato guardare alla storia attraverso le vite di persone comuni, che si trovano in situazioni estreme e cercano di confrontarsi con la realtà intorno.



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