La nuova Schlein: toni da gruppettara, il «coniglio» e via il sorriso ipnotico per provare a prendersi il centrosinistra

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di
Fabrizio Roncone

In Aula parole chiare e dirette, battute e modi da pasionaria

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Piena di una grinta inattesa, rinunciando a quel suo sorriso ipnotico, non più pedagogica, saccente, moscia o moscetta, ma con un fare diretto, senza supercazzole, con una lingua politica dura, netta, comprensibile a tutti ed eccitante per la popolazione dem, ma anche piena di un gusto antico, usando clamorosi toni da vera gruppettara e ricorrendo a una metafora beffarda e urtante, necessaria per affidare al web una battuta sulla Meloni destinata a restare nella storia di questa legislatura («Lei non è la presidente del Consiglio, è la presidente del coniglio: scappa, scappa, scappa dalla sue responsabilità…) e per dare la sensazione di essere, o per provare sul serio ad essere, la guida del centrosinistra: così, mercoledì pomeriggio, a Montecitorio, Elly Schlein.

Di botto.
Perché?
Cos’è successo?




















































Dettagli. L’ultimo minuto e mezzo del suo intervento durante l’informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Almasri, con lei in piedi, il dito indice puntato verso una sedia vuota (però la premier era nel suo ufficio, a Palazzo Chigi, davanti alla tivù: e quel dito l’ha comunque visto), è diventato un whatsappino che rimbalza ormai senza sosta sui cellulari dei parlamentari e dei militanti piddini: ma più che un video cult, sono novanta secondi di puro feticismo politico. Hai capito, Elly? No, dico: l’hai sentita? S’è per caso data una svegliata?

Niente accade per caso. Le ultime tre settimane sono state scoppiettanti nei dintorni del Pd. Un partito che la segretaria stava cercando di plasmare usando come modello Fratelli d’Italia. Stesse dinamiche di potere, medesimi meccanismi decisionali. Lì comanda Giorgia, qui comando io (anche Elly, in realtà, avrebbe una sorella: ma è una diplomatica in carriera, senza ambizioni politiche). Abbastanza identico persino lo schema tattico: come Giorgia, pure io voglio arrivare da sola a Palazzo Chigi, con qualche alleato costretto, alla fine, ad accodarsi in un visionario campo largo.

Operazione coraggiosa e complessa, con passaggi sofisticati. Già una volta qui raccontati. Comunque: quello più evidente — su questo tutti concordano — è del giugno scorso. Quando Elly fa espatriare (quasi) tutti i notabili del partito. Destinazione Bruxelles. A bordo del charter, ci sono: Antonio Decaro (che parte tenendo in tasca un biglietto di ritorno per Bari, dove prenderà il posto di Michele Emiliano alla guida della Puglia), Nicola Zingaretti (dai compagni romani, per brevità, detto «anguilla»), Matteo Ricci (che stava diventando un po’ troppo famoso in tivù) e Stefano Bonaccini, il grande sconfitto alla corsa per la poltrona del Nazareno, e perciò eletto presidente del partito, l’uomo che avrebbe dovuto guidare la «minoranza». E Andrea Orlando? Altro soggetto pericoloso: lui viene spedito nelle sabbie mobili della Liguria. Di solito, quando racconti questa storia, la guardia scelta di Elly (Bonafoni, Taruffi, Furfaro, Righi, Alivernini e, da un po’, anche Ruotolo), ti indica sempre Gianni Cuperlo — colto ed esperto, con la sua faccia da ufficiale ussaro: «Beh, però lui è rimasto».

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Non è il solo. Qualcuno molto potente, intorno al vecchio convento del Nazareno, ancora c’è. Passa l’estate, passa l’autunno, ed eccoli comparire all’improvviso. Sono i cosiddetti cattolici moderati. Tutta gente di grandiosa esperienza. E tutti parecchio nervosi. Che vogliono? Il succo è: ci siamo stufati di non contare niente. In un partito sempre più simile a un movimento per i diritti civili, tutta efferata ideologia woke e bio-borracce, vogliamo avere parola, visibilità, vogliamo poter incidere. Così organizzano due convegni in contemporanea (geniali, no?). Uno a Milano e uno a Orvieto. Entrambi benedetti da Romano Prodi (il quale nutre il forte sospetto che Elly gli dica sempre okay, certo Romano, va bene Romano, hai ragione Romano, e poi però faccia di testa sua). C’è il gran ritorno sulla scena di Paolo Gentiloni (con retroscena in cui viene descritto come il vero possibile candidato della coalizione a Palazzo Chigi). E c’è pure l’esordio di Ernesto Ruffini: lo conoscono solo quelli che hanno a che fare con l’Agenzia delle Entrate, costretti a pagare le tasse, la passione degli italiani; ma, in un raptus di entusiasmo, qualcuno pensa addirittura che possa diventare lui il volto nuovo di un nuovo partito. Perché sullo sfondo c’è questa minaccia: la scissione dal Pd.

Basta? No. Perché Dario Franceschini decide di rammentare a Elly che non solo è lui ad aver detto, a suo tempo, «Va bene, facciamole fare la segretaria», ma che, come dice Mario Brega in quel film di Carlo Verdone, «Ricordate che sta’ mano po’ esse fero… e po’ esse piuma». È ferro, in un’intervista rilasciata a Rep. Dal suo nuovo ufficio, un’ex officina meccanica dell’Esquilino, a Roma, l’ultimo sultano dem smonta ad Elly l’alleanza strategica con i 5 Stelle. «Conviene andare ognuno per conto suo… Gli accordi, dopo il voto. L’Ulivo e l’Unione non tornano più» (sott’inteso per Elly: tu non sei Prodi, purtroppo).

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Goffredo Bettini dice che è d’accordo («Anche se servirebbe un patto repubblicano»). E fermiamoci qui. Poi, per cronaca battente, si può aggiungere il mantra che ripetono tutti alle cene, alle presentazioni dei libri, alla buvette: «Giorgia governerà per i prossimi vent’anni, se l’unico capace di farle opposizione è Renzi, che però purtroppo è Renzi, e ha un partito al 2%».

Ma Elly ha sentito tutto. Sa tutto. E, adesso, vorrebbe solo sapere se la battuta del coniglio è piaciuta anche a Romano, Dario, Paolo e Goffredo.

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7 febbraio 2025 ( modifica il 7 febbraio 2025 | 08:32)

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