Dario Di Vico sulle pagine de ‘Il Foglio’ prende spunto da alcuni passaggi del discorso di insediamento di Giuseppe Pasini al vertice di Confindustria Lombardia, e dall’intervento in quella stessa sede del Presidente Orsini, ed afferma che pur comprendendo le critiche degli industriali italiani alle politiche (o ‘non politiche’) europee, la grande crisi industriale che stiamo vivendo non può essere spiegata solo dalle follie della precedente Commissione Von der Leyen/Timmermans.
Afferma inoltre che si coglie un diffuso scetticismo tra gli industriali italiani per le prime mosse della Commissione Von der Leyen 2, e in particolare per i primi documenti che incominciano ad essere pubblicati (si veda tra tutti ‘A Competitiveness Compass for EU’) nei quali non vi sarebbe la svolta richiesta a gran voce.
Di Vico non condivide questa impostazione. “La crisi della manifattura italiana agli occhi degli osservatori esterni appare più larga di questa narrazione semplificata e investe in primo luogo due temi di cui gli industriali parlano poco: il tracollo degli investimenti privati e il drastico calo della produttività. Due temi poco frequentati perché implicano una discussione “dentro” il corpaccione dell’industria italiana con tutta la fenomenologia che ne consegue e che parla di rinuncia ad ammodernare le macchine, di scarsa attenzione alla produttività del lavoro, di un andamento anagrafico che lascia alla testa delle imprese i senior e non favorisce il ricambio o l’apertura all’esterno”.
Gli inviti a riflettere su se stessi, sui problemi e sui comportamenti adottati per far fronte alle necessità del momento e prospettiche sono sempre utili e bene accetti. E fa bene Di Vico a sottolineare lo scetticismo degli industriali italiani sulle prime mosse della nuova Commissione Von der Leyen, caratterizzate ancora come sono da ambiguità di fondo.
Ho però, francamente, l’impressione che anche lui indulga alla visione pessimistica e negativa sull’Italia e sull’industria italiana molto in voga ai giorni nostri. Tale visione è peraltro da sempre molto diffusa tra opinionisti e commentatori, che vedono costantemente il bicchiere mezzo vuoto e che sono inflessibili critici nei confronti dell’economia italiana.
Dico ciò non per un atteggiamento di stupida presunzione o di arroganza intellettuale, ma perché conosco bene il sistema industriale italiano che studio e pratico da una vita. La mia visione è completamente diversa, e con molta umiltà voglio esprimerla proprio sui temi sollevati, quali investimenti, produttività e occupazione, rifacendomi il più possibile ai dati reali.
Bisogna distinguere innanzitutto tra congiuntura e struttura.
Non vi è dubbio alcuno sul fatto che ci sono settori della manifattura italiana, quali l’automotive e parte del sistema moda, che soffrono assai.
Certamente le difficoltà di questi comparti traggono origine da condizioni di contesto più generali e globali, dal forte rallentamento dell’economia europea ed in particolare della Germania che dell’industria italiana è il primo cliente, e dalle dissennate politiche green dell’Europa che sono state il più grande assist all’industria cinese.
Per auto e moda vi sono in atto importanti cambiamenti tecnologici e nei modelli di acquisto dei consumatori rispetto ai quali vi sono stati certamente anche gravi errori di conduzione. Si pensi, a mero titolo di esempio, alle politiche di incremento insensato dei prezzi nei due settori citati, che in un primo momento hanno alzato significativamente i margini ma poi hanno avuto effetti molto negativi sulla domanda e conseguentemente sulla produzione.
Ma se guardiamo ai dati strutturali e globali del nostro sistema industriale emerge la conferma, come andiamo ripetendo da molti mesi anche confrontandoci con i nostri colleghi francesi e tedeschi, che la manifattura italiana, assai diversificata, tiene; e probabilmente è la più vitale d’Europa. Tale vitalità trae origine dalle caratteristiche originali e irripetibili del nostro tessuto industriale, fatto soprattutto di pmi snelle e flessibili, e di un intreccio fantastico tra territori, imprese e famiglie, dove l’innovazione è continua e incrementale, ma viene anche dal livello di investimenti effettuati negli ultimi anni e dalla produttività raggiunta che, contrariamente a quanto si continua a ripetere, è a livelli molto alti nella graduatoria europea.
Investimenti e produttività che anzi hanno generato occupazione e grande forza competitiva.
Partiamo dagli investimenti. Non è vero che la manifattura italiana non ha investito e non investe.
In Italia, negli ultimi anni si è avuto un aumento generale della propensione ad investire.
Se misuriamo tale propensione con il rapporto investimenti fissi lordi/ PIL siamo in media al 22% nei primi tre trimestri del 2024 (anno certamente non brillantissimo per crescita), quando nel 2019 eravamo al 18,1% (dati Istat).
Anche escludendo gli investimenti in immobili (molto alti perché trascinati dai super bonus) gli investimenti nell’industria propriamente detta sono stati in Italia nei tre anni 2021-2022-2023 in media del 7,6% sul PIL (eravamo al 6% nel 2013) superando il dato della Germania nello stesso periodo che è al 6,6%, della Spagna che è il 5,6% e della Francia che è del 5,2%. Gli industriali italiani continuano a investire e lo fanno di più dei loro colleghi tedeschi, francesi e spagnoli.
Se guardiamo al dato della produttività, su cui si continuano a leggere stupidaggini di ogni tipo, nel confronto internazionale la manifattura italiana si rivela altamente competitiva. Nonostante il peso rilevante nel nostro sistema industriale delle micro e piccole imprese la produttività risulta superiore a quella della Francia e Spagna e solo leggermente inferiore a quella delle imprese tedesche.
Nelle classi dimensionali (piccole e medie imprese) dove si addensa l’industria italiana siamo i più bravi di tutti. Infatti le imprese manifatturiere italiane di media dimensione (dai 50 ai 250 dipendenti) non solo superano in produttività le loro omologhe spagnole e francesi, ma registrano performance migliori anche rispetto a quelle tedesche. E anche le piccole imprese (dai 10 ai 50 dipendenti) mostrano una performance significativa, con livelli di produttività per ora lavorata nettamente superiori a quelle delle imprese francesi e spagnole della medesima classe dimensionale, e in linea con quelle tedesche.
Infine il dato sull’occupazione. Se si guardano gli occupati nell’industria negli ultimi quattro anni la crescita è molto importante come si può notare sotto.
2021 2022 2023 2024 primi tre trimestri
4.149.000 4.206.250 4.280.250 4.316.333
Fonte: Istat contabilità nazionale, dicembre 2024.
Se consideriamo che il 2021 è ancora anno di Covid, e che il 2022 è stato segnato da una gravissima crisi energetica causata dall’invasione russa dell’Ucraina, la crescita degli addetti nell’industria, fatta per la stragrande maggioranza di contratti a tempo indeterminato, pare ancora più significativa e denota una forte vitalità e tenuta del nostro sistema industriale e una spasmodica volontà delle imprese di “fidelizzare” il rapporto con i dipendenti.
Se infine si guarda al dato delle esportazioni, la performance dell’industria italiana è ancora più eclatante. Nel 2023 abbiamo esportato 626 miliardi su un fatturato complessivo di 1200 miliardi di euro, diventando il quarto Paese esportatore del mondo davanti a Corea e Giappone. Si tratta della dimostrazione della capacità competitiva della nostra manifattura, di cui vanno ben comprese le determinanti per poterle proteggerle con le unghie e con i denti.
Abbiamo dunque un quadro molto positivo con riferimento a investimenti, produttività, occupazione e esportazioni.
Alla luce di questi dati gridare alla “crisi gravissima” dell’industria italiana non ha senso.
O è soltanto propaganda politica o è l’espressione di quel pessimismo intellettuale sul Paese e sulle sue sorti, di quel parlare male a tutti i costi di noi stessi anche quando non ve ne è alcuna ragione che costituisce una distorsione cognitiva e un ipercriticismo che non hanno eguali al mondo e che ha storicamente preso cantonate terribili. A titolo di esempio si ricorda il saggio di Luciano Gallino per i tipi di Einaudi del 2003, rieditato nel 2017, dal titolo ‘La scomparsa dell’Italia industriale’ (sic).
Naturalmente bisogna andare avanti sempre con spirito positivo, concentrando sforzi e risorse sulla crescita e sullo sviluppo di prodotti, processi e mercati, sulle strade originali dell’innovazione italiana, sulla digitalizzazione e su una transizione delle nostre imprese che sia di sostenibilità economica e sociale di lungo periodo e non solo ambientale. Le imprese e gli imprenditori italiani non mollano e non vogliono morire cinesi.
È l’industria il futuro dell’Italia.
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