In Ucraina la tregua fa paura

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Che tipo di pace sarà per l’Ucraina? Per un Paese mutilato territorialmente, distrutto al livello produttivo e in lutto da quasi tre anni non è una domanda che riguarda solo la fine della guerra, ma la possibilità di un’esistenza futura sotto la stessa bandiera che sventola a Kiev. Da quando l’opinione pubblica occidentale ha relegato la guerra nell’Est dell’Europa in fondo alle sue preoccupazioni e gli elettori statunitensi hanno rieletto Donald Trump i rischi si sono moltiplicati. Il Cremlino l’ha capito in fretta, ha fiutato il cambio del vento e non ha ceduto ai segnali negativi della sua Banca centrale, alle sanzioni e alla chiusura dei mercati europei.

IN DONBASS i reparti di Mosca avanzano e la lista di villaggi conquistati si allunga ogni giorno. Solo nell’ultimo mese il terreno conquistato dagli invasori supera i 450 kmq. Il Donetsk meridionale è sotto scacco e ora si teme anche per gli altri grandi centri del nord della regione: Kramatorsk (capitale della parte di regione rimasta agli ucraini ) e Slovjansk. Chasiv Yar, data per spacciata oltre un anno fa, dopo la caduta della vicina Bakhmut, continua a resistere. Basterebbe questo esempio a confutare le affermazioni di chi sostiene che se i russi avessero voluto avrebbero già conquistato tutta l’Ucraina. Non è così, il fronte, per quanto si sviluppi per oltre 1200 km ed è martellato giorno e notte dai droni, non si è spezzato. Nel sud gli uomini di Mosca ora vedono il confine pre-bellico del Donetsk a portata di tiro, ma neanche qui è un’avanzata trionfale. Stillicidio è la parola più appropriata, pezzo a pezzo il Donbass continua a essere devastato e un giorno si parlerà, forse, di quanto mentre a Kiev si parlava di «resistenza fino all’ultimo uomo» qui ogni battaglia sembrava cancellarlo, quell’ultimo uomo, spostando il limite un po’ più a occidente e assegnando il fatale epiteto a nuovi soldati. Sulle spalle dei quali il governo di Zelensky e le strategie occidentali hanno scaricato ormai tutto il peso della guerra. Le armi continuano ad arrivare, al netto di «una breve interruzione» come rivelato dalle autorità ucraine di recente, ma gli uomini sono sempre quelli. La campagna di reclutamento non funziona e i video dei pullmini che si fermano improvvisamente nelle strade delle città centro-occidentali e caricano a forza uomini in età da leva si moltiplicano. Hanno addirittura inventato un nome per questo tipo di coscrizione coatta, «busificazione», e in alcune aree sui canali Telegram cittadini ci si inizia ad avvertire quando viene avvistato qualche mezzo sospetto. Persino i vertici dei servizi di intelligence e dell’esercito dichiarano che non si potrà continuare così a lungo.

AI RUSSI non va altrettanto bene nel Kursk, la regione occupata dagli ucraini con una manovra a sorpresa lo scorso luglio. La divisione nordcoreana gentilmente offerta da Kim Jong-un non ha dato prova di grande competenza militare ed è stata dislocata nelle retrovie. Troppe perdite e troppe figuracce per l’esercito ospite che si trovava costantemente obbligato a smentire le foto e i video pubblicati dai canali ucraini sull’impreparazione degli alleati asiatici. La sortita tentata dai russi la scorsa settimana non ha avuto gli effetti sperati, gli ucraini hanno contrattaccato e sono riusciti a riconquistare alcune posizioni nei pressi di Sudhza, il centro famoso per essere «la porta del gas» siberiano in Europa. Ma la guerra non si deciderà in questo fazzoletto di terra, Putin e i suoi generali lo sanno e non hanno mai dato adito a dubbi su questo. Nessun reparto d’assalto è stato spostato dal Donbass al Kursk, l’offensiva deve continuare con ogni mezzo disponibile fino a che le dichiarazioni sul cessate il fuoco non diventeranno un reale percorso di trattativa.

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GLI ULTIMI SONDAGGI danno la popolarità di Zelensky in caduta libera e la percentuale di ucraini disposta a cedere territori in cambio della pace è triplicata. E anche questo è un dato negativo per l’Ucraina in toto. Putin e Trump si avventano sulle debolezze di Kiev come due avvoltoi. Il primo per ragioni che abbiamo ampiamente sviluppato, il secondo per tornaconto personale. La nuova trattativa, a quanto si lascia intendere, si gioca sulle «terre rare» di cui il Paese è ricco e che fanno gola all’amministrazione di Washington. Senza contare la ricostruzione, altro affare miliardario, i terreni agricoli ora incolti ma fertilissimi, tanto da essere stari «rubati» da Hitler con i treni merci. Inoltre c’è il prestigio, Trump si presenta al mondo come colui che risolve problemi, addirittura come un «uomo di pace».

SE L’OSTACOLO principale a questi successi è la presenza di Zelensky, che Mosca continua a definire «presidente illegittimo», poco male, si tengano nuove elezioni. La naturalezza pretestuosa con la quale negli ultimi giorni i funzionari di Trump hanno auspicato che si tengano le elezioni in Ucraina «entro il 2025» deve essere stata avvilente per Zelensky. Come se il problema fosse lui. Ma la posta in gioco è troppo alta per avere pietà. Mosca, dal canto suo, continua a sbandierare «apertura al dialogo», ma a condizione che si riconosca la sua vittoria di fatto garantendole tutti i territori occupati e tenendo Kiev fuori dalla Nato.

Zelensky non può che affidarsi al suo ascendente e a qualche calcolo geopolitico. Continua a chiamare l’Unione europea, invitandola a mandare soldati a garanzia di una eventuale tregua e distribuisce arringhe sulla necessità di un protagonismo europeo neanche fosse Jean Monnet. Ma tra dazi Usa e spinte alla disgregazione, Bruxelles al momento si comporta come chi annuisce ma è assorto nei suoi pensieri. Allora Zelensky prova da solo: «parlerò con Putin», malgrado il decreto che lo stesso presidente ucraino ha emanato nel 2022 e che gli vieta di trattare con il Cremlino. Affida alla sua ambasciatrice negli Usa, Oksana Markarova, l’ingrato compito di cospargersi il capo di cenere e dichiarare che «l’Ucraina è pronta a discutere delle elezioni entro la fine del 2025, se la questione dovesse essere sollevata dalla nuova amministrazione Usa».

L’IPOTETICA è già passato, Washington lo vuole. Mosca gongola, continua a trattare Zelensky da paria, gli risponde solo per evidenziare che al tavolo dei grandi l’Ucraina non può sedere, al massimo gli sarà riservato un tavolino vicino all’ingresso. Che ne sarà di quei 500mila soldati che da tre anni vedono solo guerra, delle famiglie a cui è rimasta solo una foto e una medaglietta alla memoria e della «lotta per la democrazia» ce lo spiegherà qualcuno altro. Magari il prossimo presidente degli Stati uniti.



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