perché non è isolazionismo ma egoismo

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La linea di confine tra Usa e Canada – ANSA

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La volontà manifestata di utilizzare la base di Guantanamo per tenere in detenzione fino a 30mila migranti irregolari che i Paesi d’origine non vogliono riaccogliere costituisce un interessante collegamento indiretto nella costellazione di riferimenti storici e geografici, sia simbolici sia operativi, che stanno caratterizzando l’inizio del secondo mandato di Donald Trump.

Riavvolgiamo il nastro.

Il 20 gennaio, nel suo discorso inaugurale, il 47° presidente annuncia che rinominerà “Golfo d’America” quello che sinora è universalmente noto come “Golfo del Messico”. E le mappe digitali si stanno adeguando a tempo di record. L’atto di imperio semantico così clamoroso oscura però un altro cambio di toponimo considerato, soprattutto all’estero, minore e trascurabile. In realtà, ridare un monte al presidente McKinley, con un ritorno al passato, segnala una connessione significativa con l’impostazione del 25° inquilino della Casa Bianca. Il Monte Denali, il più alto del Nordamerica, che peraltro McKinley non visitò mai, divenne infatti un simbolo dell’espansione americana in Alaska, con l’intitolazione attuata nel 1917. Il nome originario, che significa “l’Alto” o “il Grande” nella lingua Koyukon Athabaskan, era stato usato per secoli dai popoli nativi della regione. La decisione di Barack Obama di tornare al passato, come chiedevano da 40 anni le istituzioni dello Stato, fu considerata un riconoscimento alle tradizioni delle maltrattate popolazioni indigene.

Quando Trump (critico della decisione fin dall’inizio) riconsegna a McKinley l’onore della dedicazione della montagna, dimostra che è ostile alle politiche inclusive verso le minoranze antiche o di più recente ingresso (malgrado il tentativo di appropriarsi degli ideali del Martin Luther King Day al suo insediamento). Ma, soprattutto, vuole celebrare e riconnettersi all’eredità di un suo predecessore del quale condivide molte idee e sui cui passi vuole evidentemente muoversi. William McKinley, che governò dal 1897 al 1901, è oggi ricordato per il forte nazionalismo economico, la politica estera espansionista e il sostegno al grande business.


Il primato di Washington è la vera bussola dell’Amministrazione

Per garantire i propri interessi, la Casa Bianca

deciderà volta per volta, a seconda

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della convenienza del momento. Sullo sfondo il modello McKinley


La sua presidenza segnò il consolidamento del Partito Repubblicano come forza trainante della crescita industriale, del protezionismo commerciale e dell’espansione globale, temi che riecheggiano in modo potente nelle linee politiche di Trump. Uno dei tratti distintivi dell’Amministrazione McKinley fu il ricorso a tariffe doganali elevate, in particolare con il Dingley Tariff Act, che impose dazi record per proteggere l’industria americana dalla concorrenza straniera. Anche sul fronte della politica estera, McKinley segnò una svolta, guidando gli Stati Uniti verso un ruolo imperiale sulla scena globale. La vittoria nella guerra con la Spagna del 1898 portò all’annessione di Porto Rico, Guam e delle Filippine, con il Trattato di Parigi, trasfor-mando gli Usa in una potenza coloniale con una visione paternalistica dell’espansione, giustificata quale “dovere di civilizzazione”.

Dopo il conflitto ispano-americano, Cuba ottenne l’indipendenza formale, ma sotto forte influenza di Washington. Nel 1901, con il Platt Amendment, McKinley impose una base navale permanente a Guantanamo, ottenuta due anni dopo. Ed ecco chiudersi il cerchio, con Trump che ora vuole sfruttare il famigerato campo che ospita sospetti terroristi per la custodia di chi è entrato irregolarmente in America. Se l’approccio della nuova Amministrazione viene etichettato (o temuto) come isolazionista a causa del ritiro dagli accordi internazionali, tra cui l’Accordo di Parigi sul clima e l’Organizzazione mondiale della sanità, non pochi analisti sostengono che questa caratterizzazione semplifica troppo la sua politica estera, trascurandone la complessità.

In base a questa lettura, Trump sta adottando azioni unilaterali assertive e una strategia di protezionismo economico piuttosto che un vero isolazionismo, un termine che ha avuto la sua espressione paradigmatica nella corrente di opinione pubblica e negli orientamenti politici divenuti maggioritari proprio negli Usa dalla fine della Prima guerra mondiale al 1937. L’elemento comune tra l’intenzione (pur ampiamente velleitaria) di riprendersi il Canale di Panama, l’idea di annettere la Groenlandia, il blocco degli aiuti internazionali e il rifiuto di un coinvolgimento attivo nei meccanismi di cooperazione internazionale è l’idea di “America First”, unito alla diplomazia transazionale di cui il presidente americano è un campione indiscusso. Trump può essere detto “isolazionista” in una nuova accezione, se proprio si vogliono torcere i significati come egli stesso fa dentro la cornice della “post verità”.

Non si tratta di rinchiudersi nei propri confini, prospettiva impensabile per l’economia che risulta fortemente integrata nel contesto planetario. Solo per dare qualche dato, gli scambi di merci con l’estero rappresentano circa un quarto del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti. L’elevato livello di interdipendenza si manifesta anche attraverso gli investimenti esteri diretti, la partecipazione alle catene di approvvigionamento globali e i flussi finanziari internazionali. Allora l’isolazionismo di Trump è meglio descritto come allontanamento progressivo dall’ordine liberale, ovvero norme, istituzioni e valori che hanno guidato le relazioni internazionali dopo la Seconda guerra mondiale, in un progetto volto a stabilire regole comuni, promuovere la cooperazione economica e garantire la sicurezza collettiva. I cardini di tale ordine sono il multilateralismo, il mercato e il libero scambio, la democrazia con la difesa dei diritti umani, la prevenzione dei conflitti e lo Stato di diritto basato su accordi e i trattati.

A questo quadro, l’America che mira a tornare grande non vuole più stare, perché ritiene che possa in molti casi fare meglio da sola, trattando in una forma muscolare con singoli interlocutori, al fine di trarre il miglior risultato possibile. Ciò non significa che Washington seguirà una politica imperialista sul modello della Russia di Putin o della Cina di Xi Jinping. Di certo, però, si contrapporrà all’Europa ancora fedele al modello di multipolare e intenzionata a resistere (per quanto non è dato sapere) alle derive nazionalistiche, populistiche e ipercompetitive. Né ci sarà una regola chiara nelle scelte del tycoon, che sia coerente con un piano di distacco completo.

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Volta per volta, le decisioni saranno prese nell’interesse principale degli Stati Uniti. Che potrebbero rientrare nell’Oms se capiranno che è utile anche per loro; oppure forzare l’Ucraina a un accordo purchessia nel momento in cui valutino lo stop agli aiuti militari prioritario rispetto a tutte le altre considerazioni geostrategiche. Con il primato americano sempre come bussola. In conclusione, un moderno Plutarco non si avventurerebbe nello scrivere le vite parallele di Donald Trump e William McKinley. Troppo diversi caratterialmente, per le esperienze, per la biografia privata. E, c’è da augurarselo, anche per la loro uscita di scena. Il 25° presidente fu rieletto e subito dopo ucciso da un anarchico polacco. Il 47° Comandante in capo, già sfuggito a un attentato, per il bene della società americana è opportuno che arrivi indenne alla fine del suo mandato. Magari per distanziarsi un po’, nel frattempo, dal suo predecessore.





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