Dazi di Trump, la rivolta dei mercati e la tassa sui poveri: perché fanno male agli Stati Uniti per primi

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di
Federico Fubini

La guerra commerciale che Trump ha avviato con i dazi a Messico, Canada e Cina rischia di diventare un’involontaria aggressione orchestrata dalla Casa Bianca contro gli Stati Uniti. Un «complotto contro l’America»

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(Questo è articolo è stato ripreso dalla newsletter settimanale di Federico Fubini Whatever it takes, potete seguirla qui)

I mercati australiani hanno aperto il loro lunedì nella serata europea di domenica con un crollo dell’euro sul dollaro del 3%. Istantaneo. Mai visto prima così. E poiché si tratta del mercato più liquido al mondo – fra le due principali monete di riserva – significa che quantità immani di denaro sono passate di mano in pochi istanti: sospinte, ovviamente, dalla prospettiva di dazi americani anche sull’Unione europea che renderebbero più difficile per i prodotti di quest’ultima entrare negli Stati Uniti. Poi l’euro in Australia ha recuperato un po’, ma gli annunci di dazi nel weekend da parte di Donald Trump aprono comunque una fase di enormi tensioni. 




















































I contratti futures

I contratti futures sul principale indice di Borsa americano stanotte erano già del 2,1%, sull’indice delle società tecnologiche Nasdaq giù del 3%. Il prezzo del petrolio alle una di stanotte aveva invece già fatto un balzo verso l’alto del 3%. E non è unicamente una questione dei mercati finanziari. Perché quella che il presidente degli Stati Uniti ha aperto negli ultimi giorni con l’annuncio di dazi contro Canada, Messico e Cina – quindi presto probabilmente anche contro l’Europa – è più di una guerra commerciale ad altri Paesi. E’ un’involontaria aggressione orchestrata dalla Casa Bianca contro gli Stati Uniti. Un «complotto contro l’America» avrebbe scritto l’immenso Philip Roth, mai così profetico come nel libro che porta quel nome. Come faccio a dirlo? Guardate qui sotto. 

L’accaparramento

Questo grafico è frutto di un sondaggio su un campione di duemila americani, condotto lo scorso dicembre e pubblicato dall’agenzia Bloomberg. Un terzo delle persone interrogate dichiara che sta accumulando scorte in casa per anticipare un’inflazione da dazi o perché «impauriti e incerti riguardo al futuro». La lista dei prodotti ricorda quelli che andavano a ruba all’inizio della pandemia o quelli che uno comprerebbe in previsione di una rivolta lunga e violenta nella sua città: carta igienica, cibi a lunga conservazione, forniture sanitarie e medicine, armi e munizioni, sistemi di filtraggio dell’acqua.

Chi teme il ritorno di Trump

Quegli americani temono che il ritorno di Trump al potere si ritorca, in qualche modo, contro di loro. Probabilmente fra gli accumulatori di scorte ci sono anche alcuni degli stessi elettori del presidente, ma nella politica di questi anni in fondo è normale. Nel 2015 gli stessi greci che votarono contro il “memorandum” europeo e poi ballavano in strada per la loro vittoria nel referendum, dettero l’assalto alle banche per quelli che credevano essere gli ultimi euro nel Paese. Così oggi in America è possibile votare per Trump e poi fare razzia di carne in scatola. Quale fra i due sia il gesto razionale e quale frutto di pura emotività, si può discutere. Ma in qualche modo questi americani sospettano che il presidente stia prendendo un granchio colossale: decisioni prese nell’interesse del Paese sono destinate, in qualche modo, a ritorcerglisi contro.

Il modo di sbagliare di riequilibrare i rapporti

Di sicuro Trump si sbaglia nel pensare che i dazi siano il modo giusto di riequilibrare i rapporti con le principali aree verso le quali l’America è in rosso nello scambio di beni. Secondo lo US Census Bureau, queste aree sono appunto la Cina (con cui l’America ha 270 miliardi di deficit nei primi 11 mesi del 2024), l’Unione europea (deficit di 213 miliardi), il Messico (di 157 miliardi) e Canada (55 miliardi). Ma se i dazi fossero davvero la risposta adatta, allora avrebbero già funzionato quando l’America tornò ad alzarli per la prima volta dopo molti decenni durante la prima amministrazione Trump. Il grafico qui sotto mostra come andò allora. Alla fine di quel mandato, nel 2021, i prelievi doganali erano più o meno raddoppiati al 3,2% medio: poco rispetto ai livelli annunciati in questi giorni ma pur sempre una chiara stretta protezionistica.

La tassa sui poveri e la rivolta dei mercati: perché i dazi di Donald fanno male agli Stati Uniti per primi

I risparmi spariti

Il risultato fu opposto a quanto Trump immaginava. Come si vede nel grafico sotto, anziché ridursi, il deficit delle partite correnti con l’estero degli Stati Uniti non fece che continuare a salire. Senza sosta, fino alla traumatica uscita di Trump dalla Casa Bianca nel 2021. E non poteva che andare così. Quel disavanzo infatti ha come causa di fondo non tanto il mercantilismo di altri Paesi, quanto gli squilibri interni agli stessi Stati Uniti. Il tasso di risparmio delle famiglie americane è intrappolato in un declino secolare che lo vede calare

  • dal 10-13% del reddito disponibile degli anni ’60 e ’70
  • all’8% degli anni ’80
  • al 6% degli anni ’90
  • al 5% dopo il crash di Lehman Brothers
  • al 3,8% alla fine del 2024 (dati della Federal Reserve di St Louis).

Il deficit pubblico americano

Intanto il deficit pubblico americano è anch’esso da decenni prigioniero di una tendenza continua al rialzo. Ormai viaggia stabilmente sopra al 6% del prodotto lordo, minaccia di crescere ancora, ma il governo non incontra difficoltà a finanziarsi perché milioni di operatori in tutto il mondo sono ben felici di investire in titoli pubblici in dollari. Dunque non c’è davvero ragione apparente per risanare i conti federali. Così gli Stati Uniti continuano a spendere e consumare per somme molto superiori al valore che producono; e poiché per farlo devono necessariamente comprare prodotti all’estero, questa differenza genera il loro vasto deficit con il resto del mondo. I dazi di Trump possono richiudere quel deficit, ma solo al prezzo di una catastrofica recessione americana. Per il resto, se quello era l’obiettivo, nel migliore dei casi sono del tutto inutili. Qui il grafico relativo al deficit delle partite correnti americane in proporzione al prodotto lordo (il dato rappresenta gli scambi di beni, servizi e partite finanziarie con il resto del mondo, da Trading Economics):

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La spirale delle ritorsioni

Trump poi si sbaglia anche nel credere che una spirale di ritorsioni e il moltiplicarsi delle barriere al commercio possa fare più male alla Cina, all’Unione europea, al Canada e al Messico che agli Stati Uniti. Ciò è vero (in teoria) nel rapporto dell’America con i suoi quattro grandi partner commerciali presi, ciascuno, singolarmente. Ognuno dei quattro vende all’America più di quanto compri, dunque soffrirebbe di più da un collasso degli scambi bilaterali. Ma le esportazioni americane annue verso le quattro aree prese insieme valgono circa il 4% del prodotto lordo degli Stati Uniti (da dati dello US Census Bureau), mentre le esportazioni della Cina o dell’Unione europea verso l’America valgono meno del 3% del Pil di ciascuna delle due aree.

I danni che possono infliggere gli altri

L’implicazione è evidente: se Bruxelles, Pechino, Ottawa e Città del Messico si coalizzassero nell’imporre ritorsioni contro Trump, sarebbero in grado di infliggere danni all’America superiori a quelli che essa può infliggere all’Unione europea o alla Cina. Naturalmente la catena delle reazioni resta più complessa di così, non è mai meccanica. Ma le grandezze in gioco mostrano che Trump sta sottovalutando i pericoli per gli Stati Uniti di una guerra commerciale ad ampio raggio.

Il dazio sul petrolio importato

C’è infine un elemento di cecità più concreto. Il grafico qui sotto, elaborato fa Javier Blas di Bloomberg, mostra che il petrolio messicano e soprattutto canadese rappresenta la stragrande maggioranza di quello importato dagli Stati Uniti. E gli Stati Uniti consumano in gran parte petrolio importato, in particolare e sempre di più dal Canada: lo stesso che ora sarebbe soggetto a dazi del 10%.

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Chi paga davvero

Perché gli americani importano petrolio dal Canada, se sono i più grandi produttori al mondo? Perché le raffinerie negli Stati Uniti sono strutturate in gran parte per lavorare il greggio vischioso e pesante delle sabbie canadesi, non quello liquido e a basso contenuto di zolfo della roccia di scisto americana. Questo viene comunque esportato nel resto del mondo, perché gli impianti statunitensi sono inadatti a raffinarlo. Di conseguenza, un aumento delle tariffe doganali contro il Canada farebbe aumentare il pieno di benzina in America di circa il 15%.

I dazi per il bilancio americano ma non è così

Trump dice che i dazi sono miliardi a carico di Paesi terzi con cui finanziare il bilancio federale americano, ma non è così. I dazi sono miliardi a carico degli importatori americani da Paesi terzi, che quelli scaricheranno sui consumatori americani. Dunque i dazi alla frontiera sono una tassa sull’America e in particolare peserebbero sui suoi abitanti più poveri, date le categorie di prodotti essenziali che vengono colpite. Le componenti prodotte o assemblate in Messico potrebbero far salire il prezzo di ogni auto americana – di marchio Ford o General Motors – per circa tremila dollari. 

Il rischio rincaro dei beni essenziali

Sempre il Messico è origine di metà della frutta e di tre quarti della verdura importata dagli Stati Uniti, ma dazi al 25% equivarrebbero ad un rincaro di quelle derrate essenziali. Per non parlare delle tariffe che Trump ha annunciato su 10 miliardi di dollari in valore di e-commerce originato dall’Asia, in gran parte abbigliamento a basso costo; chi fatica ad arrivare fino alla prossima busta paga dovrebbe spendere di più per vestire i propri figli. Per questo gli annunci del presidente negli ultimi giorni sono un “complotto contro l’America” – contro i più deboli fra gli americani – non solo una dichiarazione di guerra commerciale a qualche altro Paese. Qualcosa mi dice che non abbiamo visto la fine di questa storia: i colpi di scena non fanno che iniziare.

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