Armi balcaniche nella guerra in Ucraina tra vecchie tensioni

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Winston Churchill diceva che i Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire, cita il Corsera. E Massimo Nava, personali memorie balcaniche, finisce ancora una volta tra Serbia e Croazia, con tifoserie contradditorie, ma con una attenta a vantaggiosa vendita di armi, anche a costo di litigare con la storia.  «Amici della Russia, ma anche dell’Ucraina, un po’ romantici, un po’ zingari, un po’ affaristi, un po’ mafiosi»

Nel calderone nazionale degli ‘slavi del sud’

I serbi sono i più vicini a Mosca, ma pensando al Kosovo sostengono la difesa del Donbass separatista da parte degli ucraini. I bosniaci sono sempre più divisi e i serbi di Bosnia, chiusi nella loro piccola enclave filorussa (Republika Srpska), sognano la separazione. Il Kosovo, fra faide interne albanesi e attentati attribuiti a facinorosi pro Belgrado, è ancora un enigma insoluto. I croati, assieme agli sloveni, sembrano da tempo i più integrati nella Ue, ma proprio in questi giorni hanno favorito la grande vittoria (74 per cento dei voti) del presidente uscente Zoran Milanovic, considerato amico dei russi, dichiaratamente contrario al sostegno armato all’Ucraina, pur avendo condannato l’invasione dell’Armata Rossa. A quanto pare, i croati lo hanno premiato più che altro per punire il primo ministro Andrej Plenkovic, impigliato in uno scandalo di corruzione che ha coinvolto il suo partito politico. Certo è che il fronte orientale dell’Europa, dalla Romania alla Moldavia, dall’Ungheria alla Croazia, è sempre meno compatto nel sostegno incondizionato a Kiev.

La guerra, per chi non deve combatterla, è un affare

Al di là delle posizioni politiche e del gioco diplomatico e a prescindere dagli sviluppi sociali nei diversi territori della ex Jugoslavia, certo è che la guerra russo-ucraina ha alimentato un po’ ovunque traffici e benefici economici. Grazie soprattutto alla vendita – più o meno legale – di armi e munizioni, al reclutamento di mercenari e all’esodo di mercanti, imprenditori e oligarchi russi che si sono trasferiti in particolare a Belgrado. In pratica, secondo percorsi che anche geograficamente si definirebbero «carsici», le relazioni della ex Jugoslavia di oggi ricordano la Jugoslavia di ieri: amici di tutti e di nessuno, in mezzo al guado fra blocchi e ideologie. Secondo un’inchiesta del quotidiano croato Jutarnji List, produttori e commercianti di armi dei Balcani hanno tratto grandi profitti dalla guerra in Ucraina.

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Amici di tutti e di nessuno

Dall’inizio dell’invasione russa, le esportazioni di armi della Serbia sono quadruplicate, raggiungendo circa 800 milioni di euro. Nei primi quattro mesi di quest’anno, la Bosnia-Erzegovina ha esportato quasi il doppio di armi da fuoco e munizioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «La produzione e la vendita di armi sono in piena espansione nei Balcani», sottolinea Jasmin Mujanovic, politologo associato al think tank New Lines Institute. I numerosi ordini provenienti dall’Ucraina hanno ridato vita alle fabbriche di munizioni serbe e bosniache, che fino a poco tempo fa rischiavano la bancarotta. Va ricordato che storicamente la ex Jugoslavia è sempre stata un’importante fabbrica di armi. Qui sono stati concepiti i primi archibugi per l’impero austro-ungarico e qui sono stati progettati moderni modelli di pistole.

Ex Jugoslavia arsenale con lo sconto

La Serbia ha concentrato la produzione di munizioni nella fabbrica Prvi Partizan di Uzice, nella parte occidentale del Paese. Queste aziende e molte altre hanno conosciuto un nuovo boom negli ultimi anni. L’Ucraina e i suoi alleati sono interessati ad acquistare munizioni ed equipaggiamento militare dai Balcani occidentali. Le ragioni sono molteplici: le armi sono conformi agli standard Nato, sono compatibili con il sistema utilizzato dalle forze ucraine e i loro prezzi sono più bassi rispetto ad altri mercati. Ad esempio, il prezzo di un obice da 155 millimetri prodotto dai Paesi occidentali per l’Ucraina è di circa 4.000 dollari. Lo stesso proiettile prodotto in Bosnia-Erzegovina può costare fino al 75% in meno.

Divieti modello balcanico

In teoria, in Serbia e Bosnia-Erzegovina sono in vigore leggi che vieterebbero di vendere armi in zone di guerra. Tuttavia, gli intermediari lavorano a pieno ritmo e le triangolazioni implementano il business. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno reindirizzato in Ucraina armi e munizioni acquistate in Bosnia-Erzegovina. Il Financial Times ha riportato che munizioni prodotte in Serbia, per un valore di 855 milioni di dollari, sono entrate in Ucraina attraverso la Turchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Nel 2023, le esportazioni di armi e munizioni dalla Bosnia-Erzegovina hanno totalizzato 163 milioni di euro, con un aumento del 26% rispetto all’anno precedente. Il Ministro della Difesa Zukan Helez ha recentemente elogiato l’espansione dell’industria bellica del Paese, affermando che le munizioni della Bosnia-Erzegovina, tra cui razzi e granate, vengono esportate in tutto il mondo: negli Stati Uniti, in Medio Oriente e nei Paesi dell’Unione Europea.

Dodik, d Banja Luka a Mosca

Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, ha indirettamente confermato il traffico. Essendo amico di Putin, ha infatti criticato l’esportazione di armi e munizioni bosniache verso l’Ucraina. I membri della Nato Croazia, Albania, Montenegro e Macedonia hanno trasferito all’Ucraina gran parte delle loro scorte di vecchie attrezzature sovietiche. Secondo la stampa croata, «dirigenti dell’azienda Duro Dakovic stanno negoziando con il Kuwait la possibile acquisizione di almeno 100 carri armati kuwaitiani M-84, fabbricati in Jugoslavia negli anni ’90. Dopo che questi carri armati saranno stati riparati e modernizzati, la Croazia (salvo che il neo presidente non cambi idea) li potrebbe donare all’Ucraina».

Secondo alcuni analisti, il sostegno militare all’Ucraina da parte di Paesi Nato dell’area balcanica dovrebbe accelerare il processo di adesione alla Ue. Resta ambigua la posizione della Serbia che appunto vende le armi all’Ucraina ma reitera attestati di amicizia con la Russia.

Mistero e pasticcio croato

Adesso si tratta di valutare quali saranno le intenzioni del neo presidente croato Zoran Milanovic (58 anni), un ex liberale di sinistra diventato sempre più sovranista, populista di destra ed euroscettico. Milanovic ha criticato gli aiuti militari occidentali a Kiev, guadagnandosi l’etichetta di filorusso. Il primo ministro Andrej Plenkovic, che è in aperto conflitto con Milanovic sull’Ucraina, lo ha accusato di danneggiare la credibilità internazionale della Croazia con gli alleati della Nato e con l’Ue, di cui è membro. «Voglio solo evitare che la Croazia venga trascinata nella guerra in Ucraina», ha risposto Milanovic. Quanto al suo avversario, Dragan Primorac, medico 59enne ed ex ministro dell’Istruzione, ha fatto campagna elettorale presentandosi come «unificatore» ed evocando i valori della famiglia e del patriottismo. Nell’unico dibattito tra i due candidati, tenutosi l’8 gennaio, Primorac ha accusato Milanovic di «dividere la Croazia, privatizzare l’esercito e compromettere il Paese sulla scena internazionale». Il presidente croato è il capo delle forze armate e rappresenta il suo Paese sulla scena internazionale.

Serbia post miloseviana a doppio binario

Quanto alla Serbia, continua la politica del doppio binario, con proclami di fede europeista e stretti legami con la Russia. Non potrebbe essere diversamente, in quel mosaico di contraddizioni della società serba in cui convivono le aspirazioni occidentali di larga parte dei giovani urbani e storici legami della ex nomenclatura socialista/nazionalista. Inoltre il Paese è permeabile a tutte le sollecitazioni culturali e commerciali che vengono dall’estero. Investimenti cinesi e arabi, accordi militari con la Francia, forte immigrazione russa, legami atavici con la Chiesa ortodossa. Decine di migliaia di russi vivono a Belgrado. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, più di un milione di russi ha lasciato il Paese per sfuggire alle sanzioni e alla mobilitazione. Molti si sono insediati in modo permanente, molte migliaia vivono qui approfittando di frontiere molto permeabili e burocrazia complicata. Attraversano il confine con la Bosnia-Erzegovina, a un’ora e mezza di macchina da Belgrado e rientrano in Serbia per prolungare il permesso di soggiorno.

La piccola Mosca di Novi Beograd

Secondo le stime, quasi mezzo milione si è stabilito in Serbia. È come se i russi avessero occupato l’unico Paese europeo che non ha imposto loro sanzioni, e uno dei soli tre – oltre alla Georgia e al Kazakistan – dove possono ancora venire con un volo diretto e senza visto. Non senza tensioni, stando ad alcune inchieste giornalistiche. Accolti come fratelli ortodossi, sono considerati anche «occupanti pieni di soldi» che fanno lievitare i prezzi e gli affitti. In Serbia, i russi hanno creato una comunità chiusa occupando interi quartieri come Dorcol, Vracar e Novi Beograd. Hanno i loro caffè, ristoranti, asili, medici, negozi e parrucchieri. La catena russa di supermercati discount Svetofor ha aperto una dozzina di negozi in due anni. Anche gli abitanti di Belgrado vi fanno acquisti per approfittare dei prezzi bassi. Veicoli Yandex, la versione russa di Uber, sono presenti nelle strade di Belgrado. In breve, la Serbia è diventata una «piccola Russia», con ovvie ripercussioni politiche.

È dal tempo del bombardamento della Nato su Belgrado che i legami non sono cosi intensi. Candidata all’adesione all’Ue, la Serbia ha condannato l’invasione russa, ma non ha imposto le sanzioni europee. Dal 2022, migliaia di aziende russe si sono insediate a Belgrado per aggirare le sanzioni occidentali.

Cittadinanza ai russi in attesa dell’UE

Il presidente serbo, Aleksandar Vucic avrebbe voluto approvare una legge che concedesse la cittadinanza serba ai russi che avessero soggiornato nel Paese per dodici mesi, ma il proposito è stato bloccato dall’Ue. I russi hanno iniziato ad acquistare immobili. Secondo i dati ufficiali, i loro acquisti rappresentano ormai il 5% delle vendite in Serbia. L’anno scorso hanno speso più di 180 milioni di euro per l’acquisto di immobili. Da notare che soltanto il dieci per cento dei russi residenti in Serbia ha votato per Putin, ma evitano di parlare di politica. È comprensibile: «I servizi russi si sono infiltrati nella società serba, tutto è monitorato», dice il giornalista Dragan Bursac. «Hanno creato media filorussi, hanno impiantato i servizi di sicurezza russi, l’FSB, sono penetrati nei servizi serbi, hanno preso il controllo della Chiesa e dei media locali, hanno creato centri umanitari e Ong che in realtà vengono utilizzati per lo spionaggio».

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Russificazione della Serbia

Alcuni denunciano la «russificazione della Serbia»: murales di Putin, magliette con la sua immagine e manifesti del Partito russo, recentemente fondato in Serbia. Questa destra filorussa ha superato la soglia elettorale ed è entrata nel Parlamento serbo. A Dorcol, Yandex, il Google russo, ha aperto un grande ufficio internazionale, Yandex Serbia Technology Institute.



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