Israele, ministro minaccia di lasciare. 81 morti nei nuovi raid

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Il mercato di Khan Yunis stamani: è la principale città del centro-sud della Striscia e attualmente una delle zone più densamente abitate – Reuters

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Dopo l’esultanza, il realismo. In attesa dell’entrata in vigore del cessate il fuoco con il rilascio degli ostaggi, confermato per domenica alle 12.15 locali, nuove nubi si profilano all’orizzonte di Gaza. Sono i fumi neri dei bombardamenti, che secondo fonti sanitarie locali avrebbero causato 81 morti in ventiquattr’ore, fra cui 20 minori e 25 donne. Mai così tanti negli ultimi undici giorni. Per Hamas i raid avrebbero messo a rischio anche la vita di una donna tenuta in ostaggio e il cui rilascio è previsto fra i primi. «Qualsiasi aggressione e bombardamento in questa fase potrebbe trasformare la libertà di un prigioniero in tragedia» ha tuonato Abu Obeida delle Brigate al-Qassam citato da SkyNews. L’esercito ha informato di aver colpito 50 obiettivi e ucciso «terroristi».

Sulla tregua incombono anche i fumi dell’ira dell’estrema destra israeliana di Sionismo religioso e Potere ebraico, guidati rispettivamente dai ministri Bezalel Smotrich (Finanze) e Itamar Ben-Gvir (Sicurezza), ferocemente contrari a ogni intesa e sostenitori della necessità di tornare a colonizzare la Striscia. Insieme contano 13 deputati indispensabili a tenere in piedi il governo di Benjamin Netanyahu, che si regge su 68 seggi (sui 120 della Knesset). Avevano dichiarato l’intenzione di votare contro la ratifica dell’accordo di Doha e minacciato di dimettersi. Secondo una fonte della tv pubblica Kan, nella notte fra mercoledì e giovedì Smotrich e Netanyahu sono arrivati sull’orlo della rottura. Per il sito d’informazione Ynet, il leader di Sionismo religioso avrebbe chiesto al premier l’impegno scritto a riprendere i combattimenti una volta conclusa la prima fase della tregua (42 giorni) che prevede il rilascio di 33 ostaggi (ne resterebbero 65, non è chiaro quanti vivi). Impossibile dire se l’abbia ottenuto. Media israeliani ipotizzano che il governo vari un documento per definire il nuovo obiettivo di sradicare il terrorismo dalla Cisgiordnia dopo aver reso Hamas incapace di governare e averlo distrutto militarmente.

Domani la prova dei fatti, dopo che la votazione da parte del gabinetto di sicurezza prima, e dopo del governo, è stata rinviata di un giorno a causa di «divergenze» tra Israele e Hamas sopravvenute all’ultimo minuto su alcuni punti dell’accordo. In serata è arrivata la conferma che le controversie sono state appianate e che il documento sarebbe stato firmato entro la mezzanotte. Lo ha detto al sito d’informazione palestinese Shebakt Quds, ripreso dall’agenzia Walla, una fonte di Hamas, smentendo di aver avanzato richieste aggiuntive. Funzionari israeliani hanno riferito a Ynet che «la crisi è stata risolta» e che gabinetto e governo si riuniranno oggi per approvare l’accordo. Diversamente da quanto era filtrato nei giorni scorsi, saranno liberate per prime tre donne e non una donna e i due bambini rimasti, i fratellini Bibas.

Quando la delegazione israeliana, di cui fa parte il capo del Mossad David Barnea, in serata ha lasciato Doha, in molti hanno tirato un sospiro di sollievo. A cominciare dal Segretario di stato americano dell’Amministrazione uscente, Antony Blinken, che per quindici mesi ha seguito il dossier facendo la spola fra Washington e il Medio Oriente. Ieri mattina aveva sparso sconforto la dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu secondo il quale Hamas stava «rinnegando le intese e creando una crisi dell’ultimo minuto». Motivo per cui il gabinetto israeliano non si sarebbe riunito «fino a quando i mediatori non avranno notificato a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell’intesa». Un membro dell’ufficio politico di Hamas, Izzat al-Rashak, aveva replicato che «Hamas è impegnata a rispettare l’accordo». Immediata la levata di scudi del Forum delle famiglie degli ostaggi: «Né Hamas né Ben-Gvir, ma Benjamin Netanyahu sarà responsabile di qualsiasi ulteriore ostacolo al ritorno dei rapiti». Un’altra associazione dei familiari, vicina all’estrema destra dei coloni, si oppone invece a ogni trattativa.

Netanyahu è fra l’incudine e il martello dei suoi alleati: da un lato il presidente americano eletto, Donald Trump, che è già passato all’incasso rivendicando l’intesa come il primissimo successo della sua Amministrazione che lunedì andrà a insediarsi; dall’altro la destra messianica radicale che lo mantiene al potere, dov’è stato per 13 degli ultimi 15 anni, e che non intende scendere a patti con i palestinesi né a Gaza né in Cisgiordania. Le prossime settimane diranno se questa tregua è fatta per reggere o per disintegrarsi allo scadere della prima fase, dopo sei settimane.

Nella fretta di annunciarlo prima del giuramento di Trump del 20 gennaio, l’accordo è stato limato fino a un certo punto. Rinviando a tempi successivi, a partire dal sedicesimo giorno dall’entrata in vigore, il negoziato sui dettagli della seconda e della terza fase. Tempi e modi del ritiro delle truppe dal Corridoio Filadelfia che separa Gaza dall’Egitto, ad esempio. Ma anche la lista dei palestinesi che usciranno dalle prigioni israeliane: è noto il veto di Israele su alcuni detenuti “di peso”, primo fra tutti quel Marwan Barghuti che in Cisgiordania è acclamato come il leader in pectore della Palestina.

Lunedì sarà in Israele e a Ramallah, nei Territori palestinesi, il ministro degli Esteri Antonio Tajani: «L’Italia vuol essere costruttrice di pace». Il lavoro non manca.

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