Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro, al teatro Fontana fino a domenica, è più di un testo che riflette sulla fame di visibilità, suil’effetto che il successo e la pretesa di felicità hanno su chi lo cerca, lo osserva, e lo subisce. Con acuminata leggerezza è anche un testo su quanto il potere e il successo, o meglio la loro immagine, mettano con le spalle al muro anche chi ce l’ha. Un drammaturgo e una compagnia di grande livello per illuminare le sfumature, senza consolazione.
Come si racconta, senza diventare retorici o moralisti, la società dei social, in cui ogni forma di riscatto, di emancipazione, di esistenza stessa, è tale soltanto quando passa da una piazza condivisa digitale? Ad esempio, scegliendo di farle avvenire dentro la realtà, come fuori scena, come fa Emanuele Aldrovandi nel suo ultimo lavoro: Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro, in scena fino al 2 febbraio al Teatro Fontana. Del resto l’arte non è che una metafora, o più facilmente uno strumento. Lo sa bene Marta di cui Serena De Siena fa una madre fintamente entusiasta e realmente disperata che proietta il proprio sogno di realizzazione sulla figlia Emma, sei anni e (forse) un talento da pittrice da consegnare al plauso del mondo. Un peso caricatole addosso o forse un sogno autentico da appagare, con l’assolutezza con cui lo si sogna da bambini, e la spietatezza con cui la nostra famiglia ci sogna felici, a qualsiasi prezzo. Ammesso di sapere cosa sia, la felicità.
Allo spettatore il compito di decidere se l’ossessione della fama non sia altro che questo, per una madre accecata dalla volontà di non consegnare alla figlia lo stesso senso di fallimento al quale si è ormai arresa, se anche la stessa bambina non sia che una protesi di se stessa o si tratti, a ben guardare, di un estremo atto d’amore. Di certo così lo intende Ferdinando, un Giusto Cucchiarini silenzioso e profondo, che di Emma è padre per scelta, e dalla sua tuta d’apicoltore si fa simbolo di un disagio di chi vive, se non un altro mondo, quantomeno un’altra postura, e si trova goffamente catapultato nel mondo reale. Non è altro che questo, in fondo, in effetti, il tempo in cui la bellezza la stabilisce la quantità dei like, e non è del resto il primo: l’arte concettuale di metà novecento, del resto, già intendeva dimostrare l’allargamento della forbice tra riconoscimento e talento, e che è la quantità di applausi e non lo sforzo profuso, a definire l’arte. Naturale quindi che la bambina non faccia che replicare quello schema e accostandovi il bisogno di invisibilizzarsi al mondo che guarda e proteggere se stessa dalla società dello sguardo, coprendo di giallo i disegnini che il tempo dello storytelling per bocca dei parenti rivendica per quadri.
Che “prima si fa l’opera d’arte, e poi se ne trova un senso”, nella sua apoditticità – e ben lo evidenzia il testo – è meno ironica di quanto voglia sembrare, e di certo non è prodotto dell’oggi. Così, come i genitori, anche lo zio grottesco e senza filtri di Thomas Leardini, scacchista e simbolo della misurabilità del talento e della programmabilità della vita come una partita, non è che uno dei punti di osservazione, la maschera comica, da cui si può guardare uno spettacolo denso di piani di lettura che si schiudono, facendo apparire i suoi personaggi come i sipari in cui si trasformano gli alveari, trasformando in veicolo di rappresentazione il simbolo del lavorio delle api. Sfumando, come l’arte, questo si, deve fare, i confini del giudizio come i colori, annegati in un giallo che si pensa e si fa, in scena, oro. Solo, tuttavia, se c’è qualcuno capace di trasformarla.
Come l’attrice di successo, Chiara Velardi, (Silvia Valsesia, rigorosa nell’incarnare un fascino che non ha bisogno di eccessi) invitata perchè si faccia strumento del successo degli altri, offrendo la propria luce perchè la illumini e la lanci sul palco del mondo. La sua è la parabola più interessante e intelligente che Aldrovandi lascia leggere. Colei che ce l’ha fatta, a cui il mondo non chiede ma impone di prestare un po’ del successo guadagnato, come per scontare una sorte benevola, chiamata a sé proprio consegnando ai social l’immagine di una figlia, cieca, usata come ponte o grimaldello, invitata di una festa che vuol essere tutt’altro. Eppure non c’è – o se c’è è sottile, umana – cattiveria, nel successo che Marta vuole dare a Emma: è ammantato di buoni propositi e d’intenzioni generose, di nobili proponimenti, del rispetto con cui ci si accosta a qualcuno che poniamo – fin dalla prima scena – su un piedistallo da cui lasciarci guardare dall’alto in basso. A cui riconosciamo potere. E se fosse il potere posseduto, il ricatto? Si può anche essere in buona fede, come quando si usano i social per veicolare contenuti in cui riconoscersi, da cui imparare? Chi il potere e il successo li detiene, cambia la vita delle persone con il proprio solo esistere, e si scopre nella gabbia di non aver scelto per sè il potere di agire sull’altro.
Una sfumatura del potere difficile da raccontare come da comprendere, perchè si può intuirla ma non attraversarla, non vestirne gli abiti e le sensazioni. E come agire quando si porta un potere non scelto per sè? Chiara Velardi sceglie la via che le pare migliore: usarlo per il bene: è un prototipo di valori, di ricerca di senso attraverso la propria luce, di tentativi – per come può – di dare un ordine al mondo che lei per prima ha bisogno di rivendicare per sè, come l’impegno profuso per ottenerlo, un successo che porta con sè, invece, un potere non cercato. Ma una sintesi è forse impossibile, le proiezioni e le dinamiche di classe ineludibili, e anche agire credendo di fare il bene produce gli effetti connaturati al potere, destinato a sfuggire a qualsiasi illusione di controllo. Una sfumatura acutissima e sapiente, che aggiunge a questo lavoro una componente di intelligenza ulteriore che lascia un certo disagio in chi, osservando, si riconosca in chi abbia sempre aspettato qualcosa illudendosi che, in fondo, cedere un barbaglio della propria luce non costi nulla. Eppure, nell’ultimo – amaro – capovolgimento di fronte, c’è l’esito dell’illusione che non solo il successo produca felicità, ma che la felicità sia l’obiettivo a cui tendere. Se desiderare significa – etimologicamente – percepire la mancanza delle stelle, e quindi essere proiettati verso di esse, quale vuoto incolmabile può lasciare la consapevolezza che, diventandolo a propria volta, si perda l’orizzonte a cui guardare, aprendo un vuoto tanto siderale da divorare tutto?
Emanuele Aldrovandi si conferma penna raffinatissima e acuta, (il cui forse unico passaggio un po’ posticcio è il sarcasmo verso il teatro contemporaneo infarcito di balletti) prestato a una regia minimale tutta al servizio di parole piene di sensi e venate di un’ironia che non potrebbe essere più sincera, affidata ad attori precisi ed efficacissimi, capaci di essere tragici e lievi anche nella stessa battuta. Un lavoro di straordinaria qualità, da vedere e rivedere, per lasciarsi spiazzare da tutto quello che, del mondo com’è e di noi, credevamo di avere già capito.
Ph Luca Del Pia
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