Corvetto, il quartiere milanese che pare il Cairo

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Sono le vie e le case dove ha vissuto Ramy Elgaml, il giovane morto dopo l’inseguimento con i carabinieri

Milano: viaggio a Corvetto, il quartiere che pare il Cairo, tra pregi e contraddizioni

Siamo nella periferia sudest del capoluogo lombardo. Un luogo che sta vivendo una profonda trasformazione con una forte presenza della comunità egiziana. Tra negozi halal, musica shaabi e dialetto cairota, la zona rappresenta un peculiare modello di integrazione, diverso sia dalle banlieue parigine che dai quartieri multietnici londinesi

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Corvetto assomiglia sempre di più a un quartiere del Cairo, dove povertà e classe media convivono quasi ovunque. E così se la periferia sudest di Milano, raccontata dal rapper Josh MCK in Corvetto è, per anni è stata rappresentata come un’area disagiata, oggi è invece piena di contraddizioni.

Qui viveva con la sua famiglia, in via dei Cinquecento, Ramy Elgaml, il 19enne egiziano morto il 24 novembre scorso dopo un inseguimento inconsueto della polizia.

Ma il Corvetto non è la banlieue parigina e nemmeno il quartiere sotto assedio come spesso è stato rappresentato dalla stampa italiana, anche se non mancano tensioni e rivendicazioni.

Corvetto come il Cairo

Nelle sue strade si sente parlare il dialetto egiziano del Cairo e del Delta del Nilo. All’uscita della metropolitana, i venditori di strada contrattano i prezzi di borracce, vestiti e scarpe usate. Lungo i marciapiedi, sotto il cavalcavia tra piazzale Corvetto e Corso Lodi, sono fioriti mini-market che vendono prodotti halal (rispettosi delle regole islamiche), così come negozi di riparazione cellulare e accessori computer.

A conferma che qui la comunità egiziana raggiunge grandi numeri, così come a Corsico e Gratosoglio, anche la musica shaabi electro-pop spadroneggia nelle strade del quartiere.

Nato come un genere musicale popolare della working class egiziana, sta conquistando il mondo con il suo linguaggio anti-sistema. A spopolare negli ultimi mesi tra i migranti del Nordafrica in giro per l’Europa sono i ritmi ballabili di Satalana di Mahmoud el-Leithy, Abdel Hamouda, Hamdy Batshan e Hassan el-Kholaey, dopo il grande successo degli ultimi anni di trapper come Okka w Ortega e Wegz Molotof.

La morte di Ramy ha segnato molto questo quartiere. E così anche alle porte della parrocchia di San Michele Arcangelo e Santa Rita campeggia una scritta che ricorda il giovane egiziano, Ramy Elgaml.

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Non si contano, dalla Comunità di Sant’Egidio ad ActionAid, le associazioni e le ong che negli ultimi tempi in queste strade hanno tentato di accompagnare le difficoltà in cui vivono tanti abitanti di una delle aree dove per anni si sono percepiti i redditi pro-capite tra i più bassi di Milano.

Tra le strade di Ramy

Tra scritte in arabo dovunque, giovani arabi passano la loro giornata in piedi alle porte di un bar gestito da cinesi all’angolo tra via dei Cinquecento e via dei Panigarola. Qui dal giorno della morte del giovane, si respira un clima di grande tensione. Scritte e striscioni parlano da soli. “Ramy”, “Ramy e Fafà”, l’altro ragazzo che era con lui quella terribile notte, Fares Bouzidi. «Ogni violenza avrà un’eco assordante», si legge sulle mura di un palazzo, che con le sue tende colorate a coprire i balconi potrebbe benissimo trovarsi ad Abdin (centro del Cairo).

Altri striscioni recitano: «Verità per Ramy», «Ramy è come mio fratello», accompagnati da slogan contro gli sgomberi dalle case popolari Aler e scritte contro la polizia. «Non rubo ma non ho un lavoro fisso. Mi sento di vivere un disagio», ci ha spiegato Khaled.  Poco lontano si attardano ragazze con il velo mentre altre sembrano aspettare qualcuno.

L’eccezione

«Il caso Ramy può essere visto più come un’eccezione che una regola», ci ha spiegato il docente di Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, Paolo Branca.

Esiste però un caso specifico che riguarda le comunità egiziane a Milano. «Gli egiziani, in particolare a Milano e Lombardia, sono numerosissimi e hanno varie attività: pizzerie, ditte di pulizie o sono muratori.

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Non tutti però hanno avuto successo nel loro progetto migratorio: specialmente minori non accompagnati o con situazioni familiari precarie possono finire in qualche giro sbagliato», ha confermato il docente.

Milano non è Parigi né Londra

In queste settimane in cui il Corvetto è sotto i riflettori dei media italiani, la destra ha accostato il quartiere di Milano alle banlieue parigine. «Qui non viviamo la stessa situazione delle periferie francesi. Per il modello assimilazionista che ha caratterizzato la terra d’oltralpe anche nelle sue colonie: si deve diventare francesi, quindi repubblicani e laici, a tutti i costi.

Ma la ghettizzazione nelle periferie delle metropoli principali cova un risentimento che porta a vere e proprie rivolte che sconvolgono interi quartieri», ha spiegato Branca.

Il modello inglese potrebbe forse essere più calzante per spiegare la realtà milanese. «In Gran Bretagna predomina l’approccio multiculturale che lascia ciascuno nel suo brodo, salvo casi eclatanti, e così intere città si sono trasformate in luoghi prevalentemente abitati da pachistani, bengalesi eccetera.

Anche in questo caso i problemi non mancano, ma sono attenuati dal gruppo di appartenenza che opera una specie di controllo interno e riesce a prevenire conseguenze spiacevoli», ha aggiunto il docente.

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Quindi Milano e l’Italia potrebbero incarnare un loro modello specifico a sé stante di integrazione. «L’Italia non ha un suo modello, specie in comuni medio-piccoli. Dove siamo già alla terza o quarta generazione di figli di immigrati, generalmente le cose funzionano bene. Certamente non mancano, come nel caso del Corvetto, zone degradate dove si spaccia o spadroneggiano bande di bulli, ma non è detto che si tratti sempre di giovani di origine straniera, di altra etnia o religione”, ha concluso.

La mobilitazione continua

Dalla notizia della morte di Ramy a Milano e in tutta Italia non si sono fermati i cortei, organizzati da Coordinamenti antirazzisti e centri sociali, a partire da piazza San Babila, che chiedono Giustizia e Verità per Ramy e Fares. E non sono neppure mancati gli scontri dei manifestanti con la polizia a San Lorenzo a Roma, sebbene la famiglia del giovane abbia chiesto di evitare la violenza. In particolare il padre di Ramy ha ricordato che esiste la “rabbia” nel Corvetto ma non è dovuta alla morte del giovane Ramy.

Rispetto alla versione ufficiale che parla di due ragazzi in scooter che non si sono fermati a un controllo dei carabinieri, vari testimoni hanno riferito di un comportamento discutibile delle forze dell’ordine e di un vero e proprio speronamento. In altre parole, il motorino Tmax dei due giovani si sarebbe schiantato in seguito al colpo posteriore ricevuto dalla macchina dei carabinieri. Come se non bastasse, continuano ad emergere particolari e nuovi elementi di indagine.

Lo scorso 7 gennaio è stato diffuso un video in cui si delinea una dinamica diversa dell’inseguimento partita da un comportamento anomalo dei giovani, quindi non da un fermo, e seguita con il mancato stop all’alt delle forze dell’ordine e all’inseguimento.

Nelle tasche dei due ragazzi sono state trovate poche centinaia di euro e una collanina d’oro di poco valore. Invece sarebbe stata proprio la collisione tra auto e moto ad aver provocato l’incidente e non una manovra sbagliata dei due giovani. Restano ancora dubbi sulla dinamica dei fatti dalla frenata della vettura dei carabinieri, ai tempi con cui sono stati chiamati i soccorsi e al possibile spostamento della macchina e del corpo di Ramy prima dell’arrivo dei soccorsi.

Ottenere verità e giustizia per Ramy potrà sicuramente riportare serenità al Corvetto dove la vita di tutti i giorni, tra i disagi di italiani e migranti, continua tra le mille contraddizioni di un quartiere che cambia.  

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