“Gli straordinari erano falsi, vanno condannati”

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Attraverso un atto d’appello appena depositato, la procura ha presentato ricorso contro le assoluzioni pronunciate il 27 giugno per i sette imputati in relazione all’inchiesta della polizia che aveva riguardato il Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale (che ha sede a Lugo).

In particolare erano stati tutti assolti da quasi tutti i capi d’imputazione “perché il fatto non sussiste”. E per quanto riguarda il contestato falso, derubricato ad altra ipotesi, l’assoluzione era arrivata “perché il fatto non costituisce reato”. La procura aveva invece chiesto condanne comprese tra i due anni e mezzo e i tre anni di reclusione per tutti gli imputati accusati a vario titolo di peculato, truffa aggravata in quanto ai danni dello Stato e falso ideologico in relazione a contestati usi impropri di auto di servizio tra il 2014 e il 2019, a richieste ritenute non congrue di straordinari o di rimborsi chilometrici e a vari episodi di contestato assenteismo.

Il pm Angela Scorza, che aveva coordinato le indagini della Digos, ha individuato due motivi per chiedere la riforma della sentenza: la carenza e l’illogicità di motivazione in merito a sei capi d’imputazione e, in separato blocco, in merito ad altri quattro capi d’imputazione.

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Gli imputati – come sottolineato nel ricorso – sono tutti, pur con qualifiche diverse, dipendenti del Consorzio, ente addetto alla gestione irrigua delle campagne on un comprensorio di circa 200 mila ettari. In tale contesto, ogni caporeparto ha la disponibilità di una macchina di servizio: quando era ferma in officina per periodi molto brevi, il dipendente usava la propria auto. Secondo il pm, dal dibattimento è emerso che il lavoro straordinario non veniva autorizzato da un superiore gerarchico: ma che, una volta svolto, c’era una presa d’atto dell’ufficio amministrativo. Per l’accusa, gli imputati avevano falsamente dichiarato l’uso dell’auto conseguendo rimborsi in danno dell’ente. Nell’esame in aula invece gli accusati avevano giustificato il tutto con l’ingente attività di lavoro: ovvero la mole da gestire era tale da richiedere un impegno superiore alle ore di straordinario consentite (225-250 all’anno). Il tribunale aveva escluso la truffa perché nel corso del dibattimento, era emerso che gli organi apicali del Consorzio – direttore presidente – erano a conoscenza del metodo dei rimborsi chilometrici. Come dire che non si poteva configurare l’induzione in errore.

Per il pm invece dalle dichiarazioni degli imputati era emerso che l’utilizzo del rimborso chilometrico per pagare le ore di straordinario eccedenti, era una prassi seguita sistematicamente all’interno del Consorzio per alcuni capireparto del settore pianura: ciò consentiva loro di percepire somme di danaro in mancanza di prestazioni lavorative. Gli altri invece non solo non vi ricorrevano: ma nemmeno sapevano che esistesse. Soprattutto – prosegue il ricorso – non è emersa la prova della consapevolezza del direttore generale e del presidente del metodo rimborso chilometrico. Come dire che pur delineando per gli organi apicali un disinteresse colposo grave, non è stata riscontrata una loro connivenza con un sistema che quotidianamente veniva gestito e controllato da uno degli imputati, un direttore tecnico. In quanto all’ente, erogando tali rimborsi si era privato di somme di danaro sue subendo così un danno. Nel complesso dunque – continua il pm – il sistema dei rimborsi chilometrici era funzionale a conseguire profitti definiti illeciti.

L’accusa ha anche contestato ad alcuni imputati l’avere ingiustificatamente trascorso, durante il lavoro, tempo a casa e di avere chiesto straordinario senza lavorare. Secondo il tribunale il fatto che i capireparto avessero in dotazione un computer per la gestione di personale e ore di lavoro, poteva essere indice di lavoro domestico per incombenze burocratiche. Per il pm si tratta invece di una grave carenza valutativa dato che traviserebbe i dati dei gps usati dagli investigatori: se incrociati con le prestazioni mensili di lavoro, per la procura fornirebbero la prova che gli imputati, oltre a trascorrere in maniera ingiustificata molte ore a casa, erano avvezzi a segnare fittiziamente ore di straordinario. Del resto il lavoro dei capisquadra – conclude l’atto – avveniva perlopiù in campagna mentre l’attività burocratica era irrisoria.

Andrea Colombari



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