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Intervista a tutto tondo a «Superdino» che festeggia oggi, 18 gennaio, il compleanno.«L’Armani èforte, ben guidata da Messina. Mi sorprende un po’ questa tendenza costante a cambiare giocatori ogni anno»
Settantacinque anni e non farli vedere. «Ma ci sono», riporta tutti alla realtà Dino Meneghin, il giocatore italiano più vincente della storia del basket italiano. Ma guai a dargli del monumento, l’immagine non gli piace, la sua battuta classica è «sai cosa succede ai monumenti, cosa fanno i piccioni…». È nato forte e simpatico, uomo squadra, leader assoluto, la sua carriera di campione divisa tra Varese, Milano, una appendice a Trieste, una maglia azzurra onorata nel mondo e adesso questi 75 anni da festeggiare. «Sto entrando nell’ordine di idee di mia moglie Caterina che si chiede: “ma cosa c’è da festeggiare?”, e insiste Caterina: se gli anni andassero indietro, ne hai 74 e vai a 73, poi 72 e si procede così, col segno meno». Però, fa ridere. «Si ride, ma restano 75 e li festeggeremo a casa, con i nostri cari». Quindi ci sarà anche il figlio Andrea, anche lui campione, ora intelligente e originale telecronista, papà di Carlotta e Francesca.
Dino lei è nonno?
«Una emozione unica. Carlotta gioca a volley, Francesca è un’artista, diciamo così, ha il dono del disegno: mi toccano il cuore».
Il basket lo segue sempre?
«L’Eurolega, ma una partita intera non riesco a guardarla, faccio zapping, il basket di adesso mi pare un po’ tutto uguale, un corri e tira…».
Overdose di tiro da 3 punti?
«L’altro giorno guardavo la Nba, Wembanyama, giocatore eccezionale, sa fare tutto: bene, San Antonio, la sua squadra in attacco, una bella azione, palla a lui, un 2 metri e 20, ha campo libero e invece di andare a canestro e schiacciare si ferma e tira: ok, 3 punti. Altra azione fotocopia, anche qui arresto e tiro da 3. No, scusate non fa per me. Io privilegio un gioco più vario, più propositivo e corale. Così come non mi va il playmaker che si tiene la palla per venti secondi, manovra, ha spazio, penetra, ha il lungo lì vicino da servire, niente scarica lontano sul tiratore appostato oltre la linea da tre punti. Ribadisco: non mi piace. Ma sono in buona compagnia, anche Dan Peterson ha mosso le mie stesse critiche».
Come giudica l’Armani Milano?
«È forte, ben guidata da Messina. Mi sorprende un po’ questa tendenza costante a cambiare giocatori ogni anno. Ha vinto tre scudetti consecutivi, vuol dire che si è lavorato bene, che la squadra è di tutto rispetto, ma si continua a cambiarla».
E Varese?
«Vive un’altra realtà rispetto a Milano, con una forza economica diversa, speriamo che possa ricostruire una squadra che torni a lottare per traguardi importanti».
Perché lei e Caterina avete scelto di vivere a Milano?
«Ci siamo conosciuti nell’84, stiamo insieme dall’85, 40 anni fa, quando ho smesso di giocare sono diventato team manager dell’Olimpia Milano. Mia moglie, medico, chirurgo plastico, ha sempre avuto la sua attività qui».
In futuro si voterà per il sindaco: cosa chiede al nuovo primo cittadino?
«Maggiore sicurezza. Sento gente che avverte paura, non è tranquilla. Quindi un maggiore dialogo tra il sindaco e il governo per proteggere una grande città. Eppoi, fatemi dire un’altra cosa che potrebbe sembrare un fatto personale perché io vivo in centro, ma non lo è: sbagliato aumentare la tassa dell’area C. Non solo perché trovo poco giusto che io debba pagare per andare a casa mia. Ma il cuore di una grande città deve battere per tutti, essere accessibile. Va bene il rispetto e la cura ambientale, ma sento tanta gente che non viene più in centro, che preferisce i grandi centri commerciali di Fidenza o Serravalle Scrivia, i megastore periferici per i loro acquisti. Non va bene per la città, si perde economia, viene meno il contatto con i locali del centro e anche con i luoghi di cultura».
Il traffico come lo trova?
«Ho vissuto a Roma, quando ero presidente federale. Là era pazzesco, sempre in coda, qui il traffico è più ordinato. Uso spesso il taxi e vedo che evitano corso Buenos Aires, diventato molto più lento, si preferiscono altre strade a un’arteria così importante, ma diventata impercorribile».
Il 2026 sarà anno olimpico: Milano-Cortina. Timori o speranze?
«Un evento che aiuterà la città. Lo sport muove investimenti, l’economia, dà lavoro, crea infrastrutture è anche cultura non lo si dimentichi. Milano ha bisogno di rinnovare la sua impiantistica sportiva, di un Palasport polifunzionale, di un grande spazio, un’arena da 15-20 mila persone, come succede in Francia, in Germania, in altri Paesi europei». Uno così, Dino Meneghin, va ascoltato.
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