MARCO LEONARDI
C’è una grave divisione tra la Cgil e la Cisl, che ha raccolto le firme per una legge di iniziativa popolare. In attuazione all’articolo 46 della Costituzione, consente la partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione e alla distribuzione degli utili. Questa divisione finisce per contagiare il PD e tutto il centrosinistra. Ma per quanto la legge sia debole di contenuto, comunque rimane forte per il significato simbolico. È difficile giustificare presso i lavoratori un voto contrario.
La Cisl ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare intitolata ‘’Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori’’. Si tratta di misure volte a rendere operative diverse forme di partecipazione: la «partecipazione gestionale» dei lavoratori alle scelte strategiche dell’impresa; quella «economico-finanziaria» ai profitti e ai risultati dell’impresa; la«partecipazione consultiva e organizzativa».
È un antico pallino della CISL. Rappresenta una visione di un sindacato più collaborativo, in antitesi a un modello più incentrato sulla rivendicazione. La divisione risale addirittura ai consigli di gestione degli anni ‘40 e ‘50. Sono organismi dei lavoratori dipendenti pensati nella prospettiva di una prossima socializzazione dei mezzi di produzione.
Gli attriti tra CGIL e CISL
I motivi dell’attrito tra CGIL e CISL sono facilmente comprensibili. La CGIL teme che questa iniziativa, ove diventasse legge, finirebbe per spostare in modo decisivo la contrattazione collettiva a livello aziendale e non nazionale. Ma questo non è necessariamente vero: come si vede bene oggi che è tornata l’inflazione, il contratto nazionale rimane decisivo.
Negli anni seguenti il 2015 ci fu una svolta importante nella contrattazione aziendale. Fu sostenuta da nuove norme e dalla detassazione e decontribuzione dei premi di risultato. Furono rafforzati in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione. Il limite di queste iniziative rimane sempre quello che funziona solo nelle grandi aziende. Malgrado il grande successo dei contratti di produttività (circa 10mila) essi sono sempre e solo concentrati nel nord Italia, nella manifattura, nelle grandi imprese.
Il governo e le proposte dei sindacati
La contrattazione territoriale per le piccole imprese è spesso un “timbro” senza nessuna partecipazione o contrattazione. La CGIL seppur più timidamente della CISL alla fine acconsentì a questa svolta. Non credo si sia pentita. Quelle norme e quel favore fiscale sulla contrattazione aziendale continuano con successo fino a oggi.
È vero che oggi la rivendicazione sindacale deve prendere forme più energiche se si vuole recuperare il potere d’acquisto gravemente compromesso negli ultimi due anni di inflazione. Deve affrontare con coraggio il tema del Fiscal Drag. Sono decine i miliardi -per la precisione 25 tra dipendenti e pensionati- di tasse aggiuntive per il solo effetto dell’inflazione.
Il governo ha colpevolmente ignorato il tema del Fiscal Drag. Ha trascurato 37 milioni tra dipendenti e pensionati per concepire un pasticciato progetto di concordato biennale per i soli lavoratori autonomi. È lo stesso governo che ha sostenuto la proposta della CISL. Ha negato però lo stesso trattamento a quella della CGIL sul salario minimo.
Addirittura la proposta della CISL è stata dotata di 70 milioni di euro in legge di bilancio “per le prime iniziative”. La proposta sul salario minimo non è stata invece neanche discussa. Ma come si può spiegare ai lavoratori che la CGIL vorrebbe votare e far votare contro un progetto di legge per la partecipazione dei lavoratori? Tanto più che una legge, una volta che c’è, si potrà comunque cambiare. Il voto contrario si può spiegare più per le pessime relazioni politiche tra i due sindacati che per una questione di merito.
La contrarietà della CISL al salario minimo
Allo stesso modo, all’inverso, non si può spiegare la contrarietà della CISL al salario minimo dei lavoratori. Come per la partecipazione, così per il salario minimo e la legge sulla rappresentanza dei sindacati, è incomprensibile una contrarietà sindacale. In un mondo dove i primi dieci asset manager intermediano il 50% del PIL mondiale, le 7 aziende tecnologiche generano profitti e dominano sui mercati azionari USA, non ci si può dividere su queste cose come se fossimo negli anni ’50.
Non c’è bisogno di scomodare il mondo. Se rimaniamo nel nostro piccolo recinto, oggi un imprenditore, piccolo o grande, che volesse dividere una piccola parte dei suoi profitti con i dipendenti, dovrebbe pagare due volte le tasse, la prima sugli utili e poi in capo ai dipendenti come IRPEF. Mi pare ovvio che si deve fare molto di più per la partecipazione gestionale, economica e organizzativa dei lavoratori.
Pubblicato su Il Foglio il 24.01.25
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