quel filo nero che lega il caos libico ai cpr albanesi

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Il recente picco di sbarchi per il governo è dovuto dal «vuoto di potere» a Tripoli. In Albania i migranti in attesa delle convalide raccontano le violenze subite in Libia

Un improvviso picco di sbarchi per un «vuoto di potere» in Libia, nella regione della Tripolitania. Per arrivare a questo esito è servito un vertice a palazzo Chigi sul dossier immigrazione che – dai centri in Albania alla vicenda del torturatore libico Almasri, passando per l’iscrizione nel registro degli indagati di quattro esponenti del governo, inclusa la premier Giorgia Meloni – è diventato complicato da gestire e da far passare inosservato.

Forse il governo non ricorda che l’Italia, dal 2017, trasferisce milioni di euro proprio a quel vuoto di potere, fatto di milizie e ribelli armati, per fermare i flussi migratori, costi quel che costi. E con cui è possibile intessere relazioni: è del 28 gennaio la notizia di un’iniziativa del ministero degli Enti locali libico organizzata in Italia, parte di un progetto finanziato dall’Ue, per migliorare la gestione delle risorse idriche nei comuni libici. Un vuoto di potere che le ong denunciano da anni, chi opera salvataggi in mare e chi dalle mani di quelle milizie ci è passato.

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Refugees in Libya, che riunisce persone migranti sopravvissute all’inferno libico, in una conferenza stampa mercoledì alla Camera ha raccontato di una realtà fatta di ogni tipo di tortura, violenze, sparizioni forzate, uccisioni quotidiane, in cui non esiste un governo. Non a partire da oggi, al contrario di quanto dice palazzo Chigi, secondo cui l’impennata di arrivi è dettata dal fatto che le milizie abbiano «preso il controllo di alcuni porti» e «pensato di poter fare ingenti guadagni facendo partire tante imbarcazioni in pochi giorni».

Una triste coincidenza di date lega, invece, l’arresto del capo della polizia giudiziaria di Tripoli, Osama Njeem Almasri, con una crescita esponenziale degli arrivi: dal 19 al 28 gennaio (dati del Viminale) sono quasi 3mila gli sbarchi sulle coste italiane. Mentre dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, i morti nel Mediterraneo centrale sono almeno 32.

L’inferno libico

«Non sono ricattabile, non mi faccio intimidire», ha detto Meloni martedì, nel video con cui ha fatto sapere di essere indagata per la vicenda Almasri, insieme al ministro dell’Interno Piantedosi, della Giustizia Nordio e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Mantovano. «E invece sì, siamo ricattabili, perché abbiamo bisogno del petrolio e del gas dalla Libia», ha risposto l’ong Sea Watch, «e di far sì che le forze controllate da Almasri tengano intrappolate le persone migranti a tutti i costi al di là del Mediterraneo».

Ed è proprio agli esponenti del governo indagati che i rappresentanti di Refugees Libya, testimoni di torture e violenze, vogliono far arrivare le loro richieste, tra cui la «cessazione immediata di tutti gli accordi tra Italia e Libia» e «una spiegazione ufficiale» del rilascio di Almasri. Chi ha firmato la garanzia di impunità nei confronti del «torturatore».

I centri in Albania

Anche sul fronte Albania per il governo le cose non vanno benissimo. La propaganda è stata smontata dai fatti. E come per il caso Almasri, anche sui Cpr albanesi i magistrati sono stati tirati in ballo: nel caso dei centri di detenzione realizzati vicino Tirana è quella contabile che si sta occupando di valutare gli sprechi denunciati da questo giornale e da un esposto.

Libia e Albania uniscono i destini dei migranti deportati dal governo italiano. Due di loro trattenuti nei centri albanesi, uno proveniente dal Bangladesh e uno dall’Egitto hanno raccontato le loro storie di abusi in Libia.

«Storie devastanti di rapimenti da parte delle forze libiche, di centri di detenzione e di tortura. Sono state picchiate e filmate, per ricattare le loro famiglie. Il cittadino bengalese ha pagato 25mila euro per essere liberato», ha raccontato a Domani la deputata del Pd Rachele Scarpa, che sta monitorando le procedure nel centro. «C’è lo raccontano piangendo», ha aggiunto, «e ci chiedono di denunciare la realtà libica, mentre uno dei carnefici è stato riportato lì».

Di fronte alla figuraccia sul rilascio di Almasri e ai 3mila sbarchi, il governo ha deciso di rilanciare l’operazione Albania, trasferendo 49 naufraghi il 28 gennaio. Ma si profila un nuovo fallimento: cinque sono già rientrati il giorno stesso – quattro minorenni e uno in condizioni di vulnerabilità – e uno mercoledì, perché in condizioni incompatibili con il trattenimento in Albania. Il trasferimento di quattro minori non accompagnati dimostra l’inadeguatezza delle modalità di valutazione della vulnerabilità.

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I 43 uomini rimasti nel centro di Gjadër – sottoposti alle procedure accelerate di frontiera, perché provenienti da paesi considerati sicuri – sono stati sentiti dalla commissione territoriale per l’esame delle richieste di asilo, mentre le udienze di convalida del trattenimento inizieranno venerdì.

Sarà la Corte d’appello di Roma competente sulle convalide, come voluto dal governo, non più la sezione specializzata in immigrazione. Ma decidere saranno sei giudici, che erano stati aggiunti alla sezione specializzata proprio per l’attuazione del protocollo, poi trasferiti in Corte d’appello. Se si considera che anche i paesi di provenienza non sono cambiati, Egitto e Bangladesh, è difficile pensare a decisioni diverse, in attesa della pronuncia in primavera della Corte di giustizia Ue.

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