La nuova politica estera economica dell’Italia: lungimiranza o disastro?

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di Elisabetta Capodilupo

E’ evidente a tutti che siamo a un bivio e dobbiamo scegliere che direzione prendere.
Le scelte da fare sono di due tipi: una prima scelta riguarda se continuare con la “linea Stati Uniti”, praticata finora e sempre criticata da chi ci ha visto troppo proni al volere dell’alleato atlantico, o aprirci ad una “linea mondo” che ci vede stringere patti con chiunque, in nome della convenienza economica. Un attimo dopo dobbiamo decidere se farlo da soli o aspettare che la sfinge Europa decida finalmente di muoversi.

La domanda si è fatta più pressante dopo la visita della nostra PdC Meloni a Jedda, dove, sotto una tenda regale, appositamente allestita nel deserto, ha firmato con lo sceicco Bin Salman, un accordo che, a detta dell’interessata, porterà all’Italia introiti per dieci miliardi di dollari. Una cosina interessante dal punto di vista del cash.

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Questa firma riveste una grande importanza non solo sul piano economico, ma soprattutto sul piano politico, per i risvolti che possono avere i nuovi rappporti intrapresi . Per questo qualcuno ha parlato di Piano B della Meloni.
Nel momento in cui Trump minaccia dazi da mane a sera, aprire a un nuovo mercato non può farci che bene, anche se dalle prime dichiarazioni del tycoon, la Meloni gli piace e Tajani, con spirito ottimistico, conferma che “se il buongiorno si vede dal mattino, anche nei primi colloqui che abbiamo avuto, Meloni con Trump e io con Rubio, credo ci siano margini per un buon dialogo con gli Stati Uniti”.

Ma l’ottimismo non basta, visto, che il problema sta nel fatto che la questione non si esaurisce con l’Italia. Anche se la nostra PdC, per ora, utilizza la modalità Macron, che si muove spesso indipendentemente dall’Europa e sempre cercando di anticiparne le mosse, non ci possiamo nascondere che le nostre sorti sono legate a quelle dell’Europa. Nei suoi discorsi da Gedda, la Meloni non ha mai nominato l’Europa, né ha spiegato come si possano conciliare gli interessi europei con quelli americani. Si è concentrata sull’Italia come se le nostre esportazioni e i nostri rapporti commerciali non fossero strettamente legati a quelli europei e come se un’eventuale ondata di dazi verso le altre nazioni europee non avrebbe comunque un effetto sulla nostra bilancia commerciale e sul nostro sistema produttivo.

Pensare che se il settore automobilistico tedesco, vera fissazione di Trump, fosse colpito da dazi, anche solo del 10%, questo non avrebbe una ricaduta sull’Italia è mera illusione. Il Sole 24 ore ha scritto che “se si guarda al peso delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti in rapporto al Prodotto Interno Lordo, è possibile stimare che un dazio aggiuntivo del dieci per cento verso tutto il mondo e uno del sessanta per cento verso la Cina, avrebbero sull’Italia un effetto di contrazione economica molto simile a quello che avrebbero sulla Germania”. Questo anche perché, se la Germania è prima nella classifica degli esportatori verso gli Stati Uniti, con ottanta miliardi di euro di fatturato all’anno, l’Italia è terza con quarantatrè miliardi di euro.

Dobbiamo insomma renderci conto che l’isola felice, dove portare l’Italia per metterla al riparo da quello che potrà succedere quando si arriverà al dunque e le minacce di Trump si faranno concrete, non esiste: non ci si può salvare da soli.

Non si vuole certo sminuire l’importanza di un accordo commerciale della portata di quello con l’Arabia Saudita, ma il regno wahabita e gli Emirati Arabi, così come altre nazioni con le quali abbiamo stretto accordi economico-commerciali, sono scialuppe che non ci garantiscono il salvataggio, nonostante le simpatie dell’inquilino della Casa Bianca.
Finora sembra rendersene conto, ancora una volta il nostro Ministro degli Esteri che, a margine del Consiglio Esteri ha ammesso che la guerra dei dazi non conviene a nessuno e porterà danni a tutti, anche all’Italia che in questo momento sta giocando su più tavoli, un gioco che si fa ogni giorno più complicato.

Finora, insieme con l’Europa, abbiamo assecondato gli Stati Uniti in tutto e per tutto, arrivando a farci dichiarare dalla Russia, esclusi dal tavolo delle trattative di pace in Ucraina, ora cerchiamo un’alternativa agli Stati Uniti e la cerchiamo senza la forza dell’Unione Europea. Ci conviene?

L’Unione, che non è certo un monolite imbattibile, potrebbe vedersi estromessa nella sua interezza dalla partita ucraina, così come Zelensky stesso. La pace passerebbe sulle nostre teste, diventando una questione privata tra USA e Russia, con quali contraccolpi è facile immaginare.

Ci siamo inimicati la Russia definitivamente? Stiamo cercando di lasciare la nave americana, creandoci delle alternative, memori di quanto aveva fatto Berlusconi quando regalava letti a Putin e accoglieva Gheddafi con le sua amazzoni? Non ci curiamo di tenere unita l’Europa, convinti di farcela da soli, o cerchiamo solo di smuovere le acque e magari intestarci il ruolo di pontieri? Possiamo permettercelo? Siamo in gradi di farlo? Possiamo reggere questo gioco così complicato?
No, decisamente i soldi non fanno la felicità

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