Ecco cosa fa il governo greco di Kyriakos Mitsotakis con cui Giorgia Meloni ha detto di avere “un approccio comune in materia di immigrazione”. La sentenza spiega che non si tratta solo di respingimenti illegali, ma di una violenza istituzionale organizzata che agisce nell’ombra trasformando esseri umani in oggetti
All’alba del 4 maggio 2019, insieme ad altri due cittadini turchi, una donna condannata in Turchia a sei anni e tre mesi di reclusione per appartenenza ad un movimento politico legato alla figura di Gulen, considerato illegale dal governo turco, ha attraversato il fiume Evros che fa da confine tra la Turchia e la Grecia per chiedere asilo in Grecia.
L’ingresso viene documentato da lei stessa con telefonate e messaggi al fratello che anch’egli si trovava in Grecia per chiedere asilo; temendo di essere respinta, la donna contatta un avvocato locale con la quale si incontra, insieme agli altri connazionali nella piazzetta della cittadina di confine Nea Vyssa (l’avvocato fotografa il momento dell’incontro); subito dopo la polizia greca arriva sul posto, arresta gli stranieri e li porta alla stazione di polizia di frontiera di Neo Cheimonio. La persona insiste nel chiedere asilo ma non viene ascoltata e viene trattenuta; infine insieme ad altre trenta persone rastrellate nelle stesse ore viene fatta salire su un camion che conclude la sua corsa in una località non abitata lungo l’Evros. Da li, con l’operato di uomini incappucciati tutte le persone vengono “imbarcate su un piccolo gommone per essere rimandate in Türkiye. Poiché la barca era troppo piccola per contenere trentuno persone, ha effettuato diverse traversate per riportarle tutte in Turchia” (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, sentenza ARE c. Grecia, domanda 15783/21 par.36).
Appena giunta sul lato turco dell’Evros la polizia turca (avvisata dalla polizia turca secondo la persona coinvolta) e provvede al suo arresto. Due giorni dopo, il 6 maggio, il Tribunale penale di Smirne, preso atto del suo tentativo di espatrio, la condanna alla reclusione in un carcere di massima sicurezza fino ad ottobre 2021. Il Consiglio greco per i rifugiati, nel giugno 2019, presenta una denuncia per conto della ricorrente al Procuratore della Repubblica di Atene per abuso di potere, negligenza, detenzione illegale, esposizione a rischio di vita, lesioni personali gravi, distruzione di proprietà, tortura e altri oltraggi alla dignità umana, chiedendogli di trasferire il caso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di primo grado di Orestiada il quale, investito del caso respinge la denuncia per mancanza di prove.
Con tenacia non comune viene presentato appello al pubblico ministero presso la Corte d’appello della Tracia il quale ordina la prosecuzione delle indagini, ma, a settembre 2020, respinge nuovamente il ricorso ritenendo che “non fossero prodotte prove a sostegno degli incidenti di cui erano accusati gli agenti di polizia” (par.48). Sempre secondo il procuratore greco “dal fascicolo non risultava che la denunciante fosse stata rimpatriata illegalmente in Turchia” (par.48). Peccato che il procuratore non ha tenuto in conto che una delle questioni cruciali è proprio che l’intera operazione di rimpatrio è avvenuta senza l’applicazione di alcuna procedura. Il Governo greco nel corso del giudizio dinnanzi alla Corte UE ha negato che i fatti siano mai avvenuti, contestando ogni tipo di prove (ad esempio in relazione alle fotografie della ricorrente ha sostenuto che “potevano essere state scattate in qualsiasi momento, e in particolare durante uno dei suoi precedenti viaggi in Grecia” par. 55) sostenendo che “la ricorrente non era entrata in Grecia dalla Turchia nelle date indicate, che non era stata trattenuta da agenti statali e che non era stata rimpatriata in Turchia” (par.57).
La Corte Europea, cui la ricorrente ha infine proposto ricorso dopo aver infruttuosamente tentato i mezzi di ricorso interni all’ordinamento greco, ha fortemente criticato la condotta della Grecia evidenziando che “il caso del ricorrente è solo un esempio dell’inefficacia della procedura penale in relazione alle accuse di respingimento” (par. 199) e che “l’indagine condotta dalle autorità nazionali a seguito della denuncia penale presentata dalla ricorrente era ben lontana dai requisiti di effettività previsti dalla Convenzione” (par. 304). La Corte ha evidenziato come “dalle informazioni presentate dal Governo stesso, risulta chiaramente che tutti i casi in cui le procure competenti avevano aperto un’indagine penale erano stati archiviati per mancanza di prove del respingimento … (e ciò solleva)… seri dubbi sull’efficacia dei procedimenti penali invocati dal Governo” (par 198).
E’ proprio sulla delicata questione dell’onere della prova che la decisione della Corte assume una particolare rilevanza; essa infatti richiamando la sua giurisprudenza sulla materia della tutela dei diritti fondamentali (ed in particolare dei diritti tutelati dagli articoli 2 e 3 della CEDU ricorda che “quando i fatti in questione sono noti esclusivamente alle autorità, come nel caso di persone sottoposte al loro controllo in custodia di polizia, qualsiasi lesione personale o morte verificatasi durante tale periodo di detenzione dà luogo a una forte presunzione di fatto. L’onere della prova in questi casi spetta alle autorità, che devono fornire una spiegazione soddisfacente e convincente” (par. 211); in particolare secondo la Corte “nel contesto dell’espulsione o del respingimento, si debba tener conto del fatto che la mancanza di identificazione e di trattamento personalizzato da parte delle autorità dello Stato convenuto, che contribuisce alla difficoltà incontrata dai ricorrenti nell’addurre prove loro coinvolgimento negli eventi in questione, è proprio il cuore della denuncia dei ricorrenti (…) quando il ricorrente fornisce un resoconto dettagliato, specifico e coerente degli eventi in questione, la Corte ritiene che, in linea di principio, tale prima facie esista. In tal caso, l’onere della prova deve essere invertito e posto a carico del Governo2 (par. 214).
La Corte, come in molte altre circostanze, ha valorizzato la fondatezza e l’attendibilità di molti rapporti sui respingimenti illegali in Grecia, ad iniziare da quello dello stesso Ombudsman greco che nei suoi rapporti evidenzia l’esistenza di “una pratica standard, che coinvolge un numero indefinito di vittime, che tuttavia si contano in diverse migliaia” (par. 139) e della Commissione greca per i diritti umani che nel suo rapporto annuale del 2022 indica come i rimpatri forzati informali “non costituiscono più un fenomeno occasionale e irregolare. Al contrario, è stato indicato che hanno sviluppato il modello di un’operazione sistematica e organizzata. Come indicato, gli episodi di rimpatri forzati informali vengono effettuati mobilitando risorse umane, strutture, veicoli pesanti o imbarcazioni e altri mezzi materiali e tecnici” (par.144). Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (lo stesso organo che ha stilato un durissimo rapporto sulla situazione dei CPR italiani che ho analizzato nell’edizione del 28.12.24) a novembre 2020 concludeva il suo rapporto sulla frontiera greco-turca sottolineando come “ le prove a sostegno della tesi secondo cui i migranti vengono respinti attraverso il fiume Evros verso la Turchia dopo essere stati trattenuti per diverse ore, senza beneficiare di alcuna delle garanzie fondamentali, da parte di funzionari greci che operano in veste ufficiale sono credibili”.
Nella sua decisione, analizzando il caso della ricorrente “e tenuto conto del gran numero, della diversità e della concordanza delle fonti pertinenti, la Corte conclude che dispone di seri elementi di prova che suggeriscono che, all’epoca dei fatti denunciati, esisteva una pratica sistematica di deportazione da parte delle autorità greche di cittadini di Paesi terzi dalla regione di Evros verso la Turchia” (par. 229). Condanna di conseguenza la Grecia per violazione dell’articolo 3 (divieto di tortura), dell’articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo) in combinato disposto con l’articolo 2 (diritto alla vita) nonché degli articoli 4 (proibizione della schiavitù) e 5 (diritto alla libertà). La sentenza della CEDU è dunque molto netta e, come è stato già evidenziato dalle prime analisi, non condanna solamente la Grecia per lo specifico grave evento ma riconosce l’esistenza di una prassi sistematica di deportazione verso la Grecia di persone che tentano inutilmente di chiedere asilo in Grecia.
La Corte parla di una pratica sistematica di respingimenti per indicare i fatti, ben consapevole del significato delle parole usate: non si tratta solo di respingimenti illegali ma di un vero e proprio sistema di violenza istituzionale che agisce nell’ombra trasformando esseri umani in oggetti di cui disporre a piacimento. Non c’è in questi respingimenti, a ben guardare, una violazione della procedura perché non c’è alcuna procedura nei respingimenti forzati “informali”; né in quelli fatti in Grecia, né altrove (come furono quelli, a catena, dall’Italia alla Bosnia, organizzati nel 2020 sulla frontiera triestina). La procedura di accesso al diritto d’asilo (e quindi al territorio), che prevede l’esistenza di provvedimenti scritti, motivati e notificati alle persone interessate, si può violare in molti modi, ma di tali decisioni rimane un’evidenza dalla quale si può risalire per accertare la legittimità dei fatti.
Senza procedura, anche i fatti scompaiono, come le vittime, tranne quelle rare volte, come è stato nel caso in esame, in cui una vittima con più preparazione e contatti di altri, riesce a impedire la propria trasformazione in un fantasma. Quante sono le persone la cui esistenza è resa invisibile e che ogni giorno vengono respinte senza lasciare traccia, ovunque ai confini europei (in primo luogo alle frontiere esterne, ma anche a quelle interne con i meccanismi di riammissione a catena)
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