Le donne di Messina, quelle abili ricostruttrici costrette a far nascere altrove la loro utopia

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Recentemente, durante i lavori di un convegno che commemorava il centenario dell’inaugurazione del palazzo municipale di Messina ricostruito dopo il terremoto del 1908, mi è capitato di ascoltare la brillante relazione del prof. Giuseppe Restivo nella quale, indicando il passaggio tecnologico edilizio dalla pietra al cemento armato, quale metafora della radicale trasformazione sociale avvenuta dopo il tragico sisma in riva allo Stretto, citava un poeta anonimo medievale il quale cantava la prodigalità delle donne messinesi nel ricostruire la città dopo la ribellione ai francesi del 1282 e lo faceva con questi versi:


Deh! Com’egli è gran pietate


Delle donne di Messina


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Vegendole scarmigliate


portare piete e calcina


Iddio gli dea briga e trovagli


a che Messina vuol guastare”.

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Versi che descrivono le donne messinesi come instancabili portatrici di “pietre e calcina”, indomite e sempre pronte a ricostruire la loro città ogni volta che questa cade colpita dalla natura matrigna o dagli uomini.


Questa metafora non può non evocare il famoso romanzo di Elio Vittorini “Le donne di Messina”, nel quale il neorealista siracusano narra la vicenda di un gruppo di donne fuggite dalla città peloritana dopo l’ultimo disastro, i bombardamenti anglo americani dell’estate del 1943.


Donne peloritane, tra queste le più determinate, Carmela, Elvira e Giacoma, che prendono possesso di un paese sull’Appennino Tosco Emiliano abbandonato dopo il passaggio dell’armata tedesca.

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Donne messinesi che prestano altrove la loro caparbietà costruttrice, preferendo fare in altro luogo quello che inutilmente hanno sempre tentato di fare nello sciagurato suolo natio.


Donne rassegnate all’idea che il martirio che ciclicamente la natura impone alla città di Messina non ha soluzioni risolutive poiché ad esso si aggiunge sempre l’opera di uomini che in quei frangenti colgono l’occasione di ulteriori oltraggi al fine di trarne profitti e privilegi.


La storia tragica della città racconta che ad ogni catastrofe coloro che avrebbero dovuta soccorrerla e risollevarla con pietas umana l’hanno sempre depredata con destrezza cinica e bara.


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Uomini che hanno sfruttato e sfruttano ancora ogni tentativo di resurrezione ed invece di costruire un roseo futuro operano solo obnubilanti sottrazioni d’identità per imperare, facendo ogni volta della città una terra di rapina.


Le donne raccontate da Vittorini scappano perché non credono più che grazie alle loro pietre, ai loro mattoni e alla loro calcina si possa più realizzare una città migliore.


Così preferiscono stanziarsi in un freddo paese dell’Appennino distrutto dalla guerra dove la loro abilità potrà essere meglio impiegata. Famose per essere abili ricostruttrici di spazi urbani tentano di far nascere altrove la loro utopia. Pensano alla realizzazione di un villaggio collettivista, un luogo senza proprietà, senza disuguaglianze, senza privilegi. Un luogo ideale di opportunità esistenziali ove poter sviluppare quell’armonia sociale nella loro terra ormai impossibile da realizzare, nonostante la loro sapiente determinazione e il loro sacrificio.


Pensano di costruire una comunità ove ognuno può soddisfare le proprie esigenze esistenziali e i propri sogni di civiltà senza asimmetrie sociali.

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Donne che intravedono, tra le macerie della seconda guerra mondiale, la nascita dell’attuale società capitalista e tentano di contrastarla creando un luogo che vuole essere un antidoto contro le feroci leggi del mercato imposte da un capitalismo che dal dopoguerra in poi ha pervaso fatalmente ogni coscienza imponendo come unica legge morale la competizione. A questa prospettiva le donne messinesi tentano di contrapporre un modello di città e di vita cooperativistico che vuole essere un vaccino contro il neo liberismo e la finanza che oggi generano povertà e schiavitù ad ogni latitudine.


Queste donne nel romanzo di Vittorini costituiscono una comunità sicura, un modello di convivenza comunista basato sulla qualità civile e sulla giustizia sociale. Lo fanno mettendo a disposizione la loro tipica capacità di rigenerare nuove società consapevoli di avere avuto da sempre un ruolo determinate nella rinascita dell’identità secolare della città di Messina, solo costrette a farlo in altro luogo.


La drammatica attualità di questo racconto non sfugge essendo la lampante metafora delle tante donne (e uomini) di Messina oggi costrette a costruire il loro futuro e strutturare la loro identità altrove.


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Sono quella diaspora inarrestabile di giovani messinesi di ogni ceto ed estrazione costretti a migrare in altre realtà ove gli orizzonti esistenziali sono più prosperi. Giovani che nonostante il loro benessere famigliare, la loro formazione, i loro studi e la loro alta e utile competenza acquisita sono comunque costretti a partire. Partono nelle stesse condizioni di disperato bisogno di vivere dei loro trisavoli, l’unica differenza sta nella valigia: la loro è Vuitton quella dei loro avi era di cartone. Un dettaglio che illustra come questa emigrazione sia ancora più drammatica delle precedenti.


Questa diaspora è figlia di una gestione politica e amministrativa che negli ultimi trent’anni non ha fatto nulla per valorizzare le potenzialità di una terra di altissimo valore territoriale, anzi ha depauperato ogni risorsa residua facendo di Messina un luogo senza prospettive.


Una diaspora attivata da chi ha generato benefici solo a sè stesso e a quei pochi cortigiani e clientes, i soli, e non tutti, ad avere il privilegio di poter restare sul suolo natio e attraverso la loro mediocrità perpetrare il disastro.


Questo fenomeno, come un terremoto, ha allontanato per sempre intere generazioni, ha disperso nel mondo le menti più fertili di questa città, lasciando a regnare i peggiori.


Un’autentica predazione che renderà ancora a lungo questa terra infeconda.


Una terra dove non nasceranno più donne (e uomini) capaci di costruire un futuro virtuoso con la potenza lapidea della competenza e dell’onestà e con quella speciale calcina capace di una forte coesione sociale.


L’anonimo poeta rimane inascoltato, in tutti questi secoli Iddio non ha dato “briga e trovagli a che Messina vuol guastare”.


























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