L’abuso d’ufficio dalle riforme all’abrogazione

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1. L’abuso d’ufficio è stato il reato di confine della penalizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione e quindi anche un reato residuale rispetto al complesso dei reati contro la P.A., che poteva avere la funzione di prevenire altri reati con la sua applicazione e la sua portata strategica. Forse anche per questo, se è vero che non c’è stato settore della parte speciale del diritto penale così tanto e frequentemente riformato come i delitti contro la P.A., è altrettanto vero che non c’è stato delitto di questo settore, come l’abuso d’ufficio, che sia stato così riformato. Perché? Appunto per disegnare il confine della penalizzazione dell’attività della P.A.. e perché era applicato quando non si trovava o non si riusciva a provare altro e soprattutto l’esistenza del danaro della corruzione o concussione o induzione indebita; da qui la definizione gergale di “corruzione svestita”.

Una prima e profonda riforma dell’abuso d’ufficio c’è stata nel 1990, poi seguita da altra riforma nel 1997 e via discorrendo; è questo percorso riformatore, che termina con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, che si va rapidamente ad intraprendere al fine di comprenderne appieno il significato anche nel suo esito di definitiva espunzione di quel reato dal mondo dell’illecito penale.

 

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2. Cosa muoveva la prima riforma? 

Secondo la dottrina, e ne condivideva l’impostazione anche la politica, vi era un problema di fondo nei reati contro la P.A. nella loro primogenitura nel Codice Rocco: una visione dei rapporti tra il pubblico agente e l’autorità, tutta sbilanciata a favore di quest’ultima, tanto che quel pubblico agente, si trovava circondato da una serie di fattispecie criminose poste a tutela anche di beni come il prestigio della P.A.[1], ritenuto non di rilevanza costituzionale, bensì di tipo autoritario. Ciò aveva condotto ad un ampliamento a dismisura delle stesse fattispecie criminose, in cui emergeva in primo piano sovente la violazione del rapporto di “fedeltà” fra pubblico agente e Stato, non estraneo al rilievo costituzionale, come può rilevarsi con l’art.54 Cost., anziché una tutela di concreti interessi, posti solo sullo sfondo, come erano quelli espressamente indicati soprattutto dall’art.97 Cost.. 

Quali erano questi reati del codice Rocco? L’interesse privato in atti d’ufficio e l’abuso d’ufficio che indicavano l’intento del legislatore di fornire una tutela ad amplissimo raggio: la punizione di qualsiasi cointeressenza dell’interesse privato nell’atto d’ufficio, anche, secondo l’interpretazione della giurisprudenza, se privo di illegittimità, una fattispecie fortemente tipizzata, cui si affiancava, chiudendo il cerchio della tutela, la fattispecie di abuso, vero “contenitore vuoto”, clausola generale di punibilità, tanto che era chiamato innominato, e puniva qualsiasi illegittimità dell’atto amministrativo, pur temperato dalla necessità del dolo specifico per la sua integrazione; infatti, dal punto di vista oggettivo la fattispecie era connotata dall’illegittimità dell’atto ed era l’elemento soggettivo a fungere da spartiacque tra illecito penale e mera illegittimità dell’atto, ma si prescindeva da un vantaggio personale perché per quello c’era il reato di interesse privato in atti d’ufficio. 

Nessun limite era costituito per l’applicazione del reato di abuso d’ufficio dall’attività discrezionale della P.A.; nessuna applicazione dell’art.47 u.c. c.p., perché la norma extrapenale faceva corpo con la fattispecie penale e ne conteneva tutto il disvalore, divenendo essa stessa norma penale che non poteva essere quindi ignorata ai sensi dell’art.5 c.p.. Era un evidente reato di pericolo con il suo carattere residuale che evidenziava la tutela a tutto tondo del prestigio della P.A.. 

 

3. L’effetto, realizzatosi nel vigore di questa normativa e stigmatizzato dalla politica, era una tendenza all’invasione della sfera di competenza della P.A. da parte del potere giudiziario, soprattutto in presenza di un’attività della P.A. caratterizzata da discrezionalità, cioè da capacità di risposte opportune, anche diverse, pur nel rispetto delle leggi e della normativa secondaria. 

Inoltre, si determinava una sovrapposizione del giudice penale al giudice amministrativo, che pure ad un certo punto costituiva ormai una forma di garanzia consegnata al nostro ordinamento; non va dimenticato che i TAR non sono sempre esistiti (in precedenza vi erano le Giunte Provinciali Amministrative che però avevano un più limitato potere di intervento) e vengono istituiti nel 1971, per cui, se un controllo penale così invasivo si poteva giustificare un tempo, rischiava poi di costituire decisamente un raddoppio di controllo. La questione era accentuata dalla valutazione dell’eccesso di potere come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa con le sue figure sintomatiche, per cui gli atti illegittimi anche per eccesso di potere divenivano tutti astrattamente punibili per abuso d’ufficio sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato. 

Tutto questo si determinava sinergicamente con il versante della qualifiche soggettive della P.A., interpretate secondo un criterio soggettivo, cioè della dipendenza organica dell’agente alla P.A., manifestazione evidente dell’obiettivo politico-criminale tendente a rinsaldare i rapporti tra funzionario pubblico e autorità. Una P.A. in senso molto lato per cui l’attività bancaria era un pubblico servizio (come affermata dalle SS.UU della Corte di Cassazione) anche per quegli istituti che non erano di diritto pubblico. Questo tipo d’impostazione poteva attagliarsi anche ad altri settori: assicurazioni, produzioni alimentari, etc., con una dilatazione della categoria eccessiva in un’economia di tipo liberale. Gli indici ed i criteri diventavano così troppo opinabili.

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4. La riforma del 1990[2]. Quanto sinora osservato spiega pertanto perché, dopo una approfondita elaborazione, nel 1990 è stata varata la più importante riforma della parte speciale del codice Rocco, cioè quella, appunto, dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.. Intendimento comune della riforma era, evidentemente, quello di ridurre la sfera di intervento del giudice penale nella P.A., così da rendere questo settore nevralgico della parte speciale maggiormente attento anche ai più autentici valori costituzionali di riferimento, ovverosia l’imparzialità ed il buon andamento, espressi nell’art. 97 Cost. con una una relegazione dell’art.54 Cost.. E’ quest’ultima una norma poco conosciuta che pone per coloro cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina ed onore; se non è il prestigio un bene di rilievo costituzionale, di rilievo costituzionale è una modalità di esercizio della funzione pubblica che va oltre il rispetto puro e semplice della legge, cioè la fedeltà che sintetizza la disciplina e l’onore richiesti dalla norma costituzionale; essa si colloca in chiusura della I parte della Costituzione, nel titolo IV sui diritti politici e non nella parte riservata alla P.A., nella quale si trovano, invece, gli artt.97 e 98 Cost. e soprattutto la prima di queste norme disegna quelli che sono i principi generali che devono informare la P.A. e per questo l’imparzialità ed il buon andamento[3] focalizzano in modo decisivo l’intervento riformatore. 

La conseguenza è l’abolizione dell’interesse privato in atti d’ufficio, anche se le condotte che integravano quel reato potevano ricadere a certe condizioni in altra ipotesi criminosa, quale l’abuso d’ufficio che diventa il fulcro della riforma, ma viene completamente modificato, anche attraverso la suddivisione tra abuso per finalità patrimoniali e non patrimoniali. Residuava però una certa indeterminatezza della fattispecie, a causa della vaghezza del termine “abusa del suo ufficio”, cui soccorreva ancora il ricorso al dolo specifico, su cui si scaricava l’intero disvalore del fatto; un elemento che comunque, nonostante gli sforzi, restava di indole soggettiva: la finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio (c.d. abuso profittatorio) o un danno ingiusto (c.d. abuso prevaricatorio), con tutte le conseguenze che ciò comportava a livello di realizzazione pratica della fattispecie e di conseguente suo accertamento. 

Restava l’abuso d’ufficio un reato di pericolo.

Altra modifica riguardava il soggetto attivo del reato che poteva essere commesso oltre che dal pubblico ufficiale anche dall’incaricato di pubblico servizio. 

A tal proposito sul versante generale delle qualifiche soggettive vi era, con la riforma, l’abbandono del paradigma interpretativo soggettivo, che cedeva il passo a quello oggettivo, avvenuto mediante il ricorso al criterio “esterno” della presenza o meno, di norme di diritto pubblico, che disciplinavano l’attività medesima; peraltro, si manteneva la distinzione fra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, che rappresentava notoriamente uno dei profili più discussi del settore in esame e che in epoca di accentuata privatizzazione faceva permanere il carattere penale di molte condotte.

Il policentrismo amministrativo rendeva la questione in sé rilevante e comunque manteneva la dilatazione applicativa delle norme penali di questo settore (senza considerare il funzionario di fatto) e non bisogna dimenticare che la trasformazione di un ente pubblico in s.p.a. non era di per sé dirimente rispetto all’attività che questa persona giuridica continuava ad esercitare, per cui, se essa era un pubblico servizio, continuava a restare tale anche se esercitato da una s.p.a. e pure senza un provvedimento concessorio della P.A., bastava che l’attività fosse disciplinata da norme di diritto pubblico senza i poteri tipici della potestà amministrativa.

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L’anno 1990 è anche l’anno in cui entra in vigore la L.241 sul procedimento amministrativo. La procedimentalizzazione dell’atto amministrativo attraverso una legge paradigma di esso determina un processo di democratizzazione del provvedimento amministrativo che si qualifica per essere un atto della P.A. che ha un destinatario, spesso un cittadino. I due principi capisaldi di questa legge sono: un procedimento partecipato con tutti i soggetti interessati ad incominciare dal cittadino, in sostanza l’innesto di un contraddittorio tra tutti gli interessati; il secondo è la motivazione del provvedimento che deve dar conto delle ragioni di esso alla luce di quel contraddittorio. La conseguenza di questo inserimento di contraddittorio e motivazione è una somiglianza dell’attività amministrativa all’esercizio della giurisdizione; processo e motivazione sono i requisiti fondamentali ed imprescindibili della giurisdizione. Naturalmente questi inserimenti determinano anche una maggiore possibilità di intervento della giurisdizione amministrativa sia per violazione di legge (ad es. relativamente a passaggi provvedimentali) che per eccesso di potere perché proprio la motivazione deve svelare le ragioni del provvedimento.

 

5. La riforma del 1997 in tema di abuso d’ufficio[4] assume un carattere radicale e trasforma quel delitto da reato di pericolo a reato di danno con dolo intenzionale.

Una conseguenza è anche la plurioffensività del reato, per cui anche il privato diventa persona offesa[5].

Altra caratteristica è la condotta a forma vincolata: esse deve costituire una violazione della norma di legge o regolamento o del dovere di astensione.

La riforma nasce con la dichiarata volontà del legislatore di espungere dal sindacato del giudice penale l’eccesso di potere e questa affermazione ha trovato iniziale conferma in varie sentenze di legittimità, tra cui tra le più note quella della sez. II, 4.12.1997, ricorrente Tosches, che infatti ha ritenuto che il termine “violazione di legge” dovesse essere inteso solo con riferimento a specifiche norme che riguardano quel determinato comportamento, con esclusione, quindi, delle norme generali o di principio, nonché delle norme procedimentali; ma pian piano è stato giustamente rilevato anche in dottrina[6] come non possa negarsi valore di legge sia a norme costituzionali, come l’art. 97 Cost., che a norme ordinarie, come l’art. 1, l. 241/1990, e questa interpretazione ha trovato poi conferma anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, decisamente orientata verso questo secondo e più ampio significato della norma. D’altra parte non si vede perché la violazione dell’interesse tipicamente descritto dalla norma penale non dovesse integrare la fattispecie penale, come nel caso della procedimentalizzazione dell’atto amministrativo e della motivazione del provvedimento amministrativo con tutte le relative conseguenze in termini di eccesso di potere. 

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Per quel che riguardava l’elemento soggettivo, anche il requisito del dolo intenzionale, pur se generico, nel quale l’evento del reato è stato perseguito come lo scopo finale della condotta, ha subìto un’interpretazione nella giurisprudenza di legittimità dapprima volta a ritenere irrilevante ai fini dell’integrazione del dolo la compresenza comunque di un interesse pubblico a meno che questo non fosse prevalente, per giungere poi ad un’interpretazione addirittura più restrittiva, nel senso di richiedere addirittura un dolo cd. “esclusivo”, tale da condurre ad un’esenzione da responsabilità penale, laddove il pubblico agente, che pure avesse agito, mosso da un interesse proprio o di un proprio sodale, dimostrasse che, contemporaneamente, avesse voluto fare anche gli interessi della pubblica amministrazione; in questo modo però si è data la stura ad assoluzioni praticamente senza limiti, dal momento che sarà, ovviamente, scontato che ogni pubblico agente si difenda (anche) in tal modo. Si è passati così dall’interpretazione dell’interesse privato in atti d’ufficio, per cui andava punita qualsiasi cointeressenza privata, anche senza illegittimità dell’atto, alla necessità di un dolo esclusivo dell’abuso d’ufficio che può ricomprendere pure un’attività rivolta ad un interesse privato.

Forse anche in questo caso l’art.54 della Costituzione è stato un po’ dimenticato.

Infine, non può non essere segnalata la stravaganza, per non dire la contraddittorietà, di focalizzare la condotta e l’evento punibili, di ridurre l’applicazione della norma ai fatti di maggiore gravità e quindi di reale violazione dell’interesse che si vuole tutelare, rendendo più difficoltoso l’accertamento del reato, e nel contempo poi si abbassa la pena massima a tre anni di reclusione rispetto ai cinque iniziali. Questo ha determinato ricadute anche in termini di prescrizione del reato,  poiché la riforma entra in vigore con una disciplina della prescrizione antecedente alla L.5.12.2005 n.251, c.d. legge ex Cirielli, per cui il reato si prescriveva, in dieci anni, più cinque anni al massimo in presenza di atti interruttivi, mentre con l’abbassamento della pena a tre anni di reclusione il reato si prescriveva in cinque anni con possibilità in caso di atti interruttivi di arrivare al massimo a sette anni e mezzo; in buona sostanza un dimezzamento complessivo delle prescrizione. Con l’avvento della legge ex Cirielli il termine di prescrizione restava invariato; questa abbreviazione dei termini di prescrizione comunque mal si conciliava con una tipologia di indagini piuttosto complesse in molti casi, così che la prescrizione è diventata una conclusione ricorrente.

Ma il legislatore guarda spesso, quando modifica la pena, anche agli effetti che essa determina processualmente; in questo caso l’abbassamento della pena reagiva sulle intercettazioni telefoniche, rendendole non più esperibili, posto che esse hanno il limite minimo dei cinque anni di reclusione per essere disposte. Lo stesso dicasi per le misure coercitive, con la nuova pena massima edittale sono impedite sia le misure custodiali, quando l’esigenza cautelare è quella di cui all’art.274 lett.c) c.p.p., sia le misure interdittive.

In definitiva poi, ridurre la portata applicativa a tal punto di questo reato, abbassando la pena e rendendolo più difficilmente configurabile, non fa che conseguire il depauperamento della sua funzione anche preventiva rispetto ai più gravi reati di corruzione e via a salire.

 

6. La legge n.190 del 2012[7] c.d. Severino interviene in modo parco sull’abuso d’ufficio incrementando la pena a 4 anni di reclusione, ma non arrivando a raggiungere quei limiti per consentire una maggiore incisività alle indagini e modificare il termine di prescrizione del reato aumentandolo. Peraltro è una riforma decisamente significativa sotto altri profili, tra cui l’introduzione del traffico d’influenze e dell’induzione indebita con il c.d. spacchettamento della concussione.

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Nell’ultimo quinquennio l’abuso d’ufficio ha subito un’ulteriore modifica erosiva, con parziale abrogazione, iniziando quello che in dottrina[8] è stato definito «il soffocamento applicativo», un vero e proprio stato agonico che ha condotto poi alla morte del reato con la legge Nordio dell’agosto scorso dopo 94 anni di vita, anche particolarmente tormentata negli ultimi 35 anni, tenuto conto delle difficoltà interpretative conseguenti al succedersi delle leggi; è stata messa a dura prova la capacità di una norma come l’art.2 c.p. in materia di successione di leggi penali nel tempo che aveva retto bene rispetto ad altre modifiche normative, ma ha manifestato cedimenti di fronte a questo continuo susseguirsi di norme ed alla possibilità di sedimentare nel tempo la loro interpretazione[9].

Il D.L. 16.7.2020 n.76 (c.d. decreto semplificazioni) conv. con la L.11.9.2020[10] restringe la portata applicativa della norma, attribuendo rilievo penale alla violazione di «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di applicabilità»; due evidenti conseguenze: sono espunte dal penalmente rilevante la violazione di fonti normative secondarie, tra cui in primis i regolamenti, ed anche tra gli atti rilevanti vanno espunti quelli che consentono margini di discrezionalità. Per continuare nel linguaggio medico della dottrina poc’anzi citata si riscontra una stenosi applicativa che vuole contrastare la c.d. burocrazia difensiva e il timore della firma dei sindaci e dei pubblici amministratori in generale. 

La Corte Costituzionale, innanzi alla quale viene sollevata la questione di legittimità costituzionale della rinnovata fattispecie, con la sentenza n.8 del 18.1.2022 fa cadere qualsiasi eventuale equivocità della norma respingendo la questione ed affermando che non si può ritenere più sussunta nella condotta tipica l’inosservanza di norme di principio quali l’art.97 Cost. e gli atti viziati da eccesso di potere perché evidentemente comunque basati su una discrezionalità riconosciuta dalla legge. Più chiaro di così! 

La giurisprudenza di legittimità si è posta in conformità a questo chiaro dettato, operando solo una precisazione non di scarso rilievo e cioè che vanno ritenuti penalmente rilevanti non solo la violazione delle regole di condotta astrattamente regolate dalla legge in modo vincolato, ma anche quelle violazioni che si riconnettono ad un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’atto in cui si sostanzia l’abuso d’ufficio, facendo in parte rientrare dalla finestra ciò che la legge voleva probabilmente fare uscire dalla porta (come ad es. la materia edilizia che rispondeva a queste caratteristiche)[11].

 

7. Si arriva quindi alla legge 9.8.2014 n.114[12] che abroga il reato di abuso d’ufficio, anche se non proprio tutte le condotte che lo integravano rimarranno prive di rilievo penale come dimostra l’introduzione dell’art.314 bis c.p. da parte del D.L.4.7.2024 n.92, conv. nella l. 8.8.2024 n.112, ma il favoritismo nel senso più tipico ed etimologico del termine non ha più tutela penale, persino quando sia fatto in violazione di un dovere di astensione, tipica situazione che può riguardare un interesse familiare o amicale nell’atto amministrativo.

E’ quindi avvenuto che siamo passati da una panpenalizzazione ad una decriminalizzazione: si è assistito per anni ad una sorta di regolamento di confini dell’illecito penale dell’abuso d’ufficio con il penalmente lecito, con erosione del territorio dell’illecito; adesso si assiste ad una sostanziale sottrazione di territorio dell’illiceità penale senza alcuna ricaduta in altri settori perché non vi è una depenalizzazione, ma una decriminalizzazione e per il c.d. favoritismo nell’attività della P.A. resta solo eventualmente la tutela giurisdizionale amministrativa. 

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Il Tribunale di Firenze ha sollevato per primo la questione di legittimità costituzionale[13] e tra i parametri costituzionali individuati relativi alla P.A. l’unico è quello dell’art.97 Cost., mentre gli altri sono relativi alla violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite e di Merida, entrambe del 2003. Uno degli aspetti che sottolinea a tal fine l’ordinanza del tribunale di Firenze è proprio quello di rimettere «alla sola iniziativa del privato (del terzo danneggiato, tra l’altro solo eventuale) la tutela di un bene giuridico pubblico e collettivo sottratto alla disponibilità del privato medesimo, ponendo a carico dei cittadini i costi, anche sul piano economico, connessi all’adozione di iniziative volte al ripristino della legalità, in ipotesi violata da condotte poste in essere da pubblici dipendenti, funzionari e pubblici ufficiali» e ciò vuol dire di fatto la mancata persecuzione di condotte che «comportino un vantaggio per il terzo privato, in assenza o all’insaputa di eventuali soggetti contro-interessati che possano intraprendere un’azione volta a far accertare l’illegittimità di quella condotta». Tutto questo senza considerare la diversa capacità di indagine del processo penale rispetto al processo amministrativo.

Si vuole far rivivere un morto; non credo sarà facile! L’obiettivo di ridurre il territorio dell’illiceità penale e sottrarre potere alla funzione giurisdizionale rispetto ad un reato che poteva commettere chi fa politica è quello che voleva conseguire il legislatore. Era nei suoi poteri? Ma, al di là della decisione che la Corte Costituzionale prenderà, le tormentate vicende del reato di abuso d’ufficio fanno tornare alla mente la frase di Michel Rocard, primo Ministro francese ai tempi di Francois Mitterand: il governo dei giudici è un rischio permanente in democrazia, ma è infinitamente minore di quello di un governo senza giudici.

 
[1] Bricola F., Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, pagg.563 e ss.; Manna A., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Diritto-on-line su www.treccani.it. 

[2] E’ una riforma che matura col VII Governo Andreotti, pentapartito, con Ministro della Giustizia il prof. Giuliano Vassalli, cui poi succedette nel febbraio 1991 l’on Claudio Martelli in seguito alla nomina di Vassalli alla Corte Costituzionale da parte del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.

[3] Così Manna A, op. cit., in Diritto-on-line su www.treccani.it.

[4] La riforma veniva promossa dal primo Governo Prodi, il cui Ministro della Giustizia era Giovanni Maria Flick, che diventerà anch’esso giudice della Corte Costituzionale, nominato dal Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.

[5] La natura del reato plurioffensiva, che investe anche il privato, si realizzava allorquando si versava nella produzione di un danno ingiusto c.d. abuso prevaricatorio; permaneva il carattere monoffensivo senza rilievo per il privato nel caso dell’ingiusto vantaggio c.d. abuso profittatorio, con evidenti ricadute sotto il profilo dei diritti della persona offesa.

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[6] Manna, op.cit, in Diritto-on-line su www.treccani.it.

[7] La prof.ssa Paola Severino ricopriva il ruolo di Ministro della Giustizia nel Governo, il cui primo Ministro era il prof. Mario Monti.

[8] Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza penale Web, 2020, 7-8.

[9] Si veda Gatta, Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la L.114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, in Sistema Penale, Rivista on line, 7-8/2024, pagg.187 e ss..

[10] Il Governo che emana il Decreto-legge è il secondo del prof. Giuseppe Conte, il cui Ministro della Giustizia era l’avv. Alfonso Bonafede. Si è nel pieno del periodo pandemico del Covid e forse può rivelarsi anche qualche rapporto con la modifica dell’art.323 c.p..

[11] Si vedano in particolare le sentenze della Cassazione sez. VI 1.3.2021 n.8057 e sez. III 8.6.2022 n.30856. Per una critica a questa impostazione si veda Ravenna, L’omicidio (tentato?) del delitto di abuso d’ufficio, in Diritto e Procedura penale n.1 del 2024, pagg.73 e ss.. In una prospettiva diversa Manna, L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la reazione della giurisprudenza, in Sistema Penale, rivista on line, 2.12.2024, Newsletter n. 171. Si pone in una prospettiva, che sembra, avveniristica Bernardini, La recente abrogazione del reato di abuso d’ufficio ha sollevato forti preoccupazioni in merito alla tutela dei cittadini contro gli abusi dei poteri pubblici. Si avverte l’esigenza di una nuova riforma che possa dare vista stabile alla fattispecie, facendo altresì fedele applicazione dei principi di tassatività e determinatezza, in Questione Giustizia, Rivista on line, 5.11.2024.

[12] Promossa dal Governo in carica presieduto da Giorgia Meloni, il cui Ministro della Giustizia è il dott. Carlo Nordio.

[13] Si tratta dell’ordinanza del 24.9.2024 della sezione III del Tribunale di Firenze, cui sono seguite altre ordinanze di diversi Tribunali che hanno provveduto a sollevare la stessa questione con argomentazioni pressoché simili con quelle del Tribunale di Firenze. Per un commento si veda Gatta, Abolizione dell’abuso d’ufficio: a Firenze una prima ordinanza di rimessione alla Consulta. Esiste un obbligo convenzionale di non decriminalizzazione (o di stand-still), in Sistema Penale, rivista on line 25.9.2024. 

Intervento svolto all’vento organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Latina  e dalla Fondazione Avvocatura Pontina “Michele Pierro” dal titolo La L.114/2024: obiettivi e criticità intorno alla soppressione dell’abuso d’ufficio.





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