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Il Sudan e la guerra che conviene a troppi

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 gennaio 2025

Quando si parla della guerra mondiale a pezzi siamo soliti prestare attenzione solo ai pezzi che ci stanno vicino, con particolare intensità all’Ucraina e alla Palestina. Vi sono però conflitti che hanno raggiunto livelli di sofferenza e crudeltà non meno drammatici ai quali prestiamo solo un’attenzione distratta. Su questi conviene invece riflettere non solo per le drammatiche conseguenze sulle popolazioni colpite, ma anche perché sono il frutto di una crescente instabilità nei rapporti tra le grandi potenze e di un’altrettanto crescente debolezza delle Nazioni Unite e dello stesso Consiglio di Sicurezza.

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Tutto il continente africano si trova in questa fase di instabilità a causa della quale, dall’aprile 2023, il Sudan rappresenta, insieme alla parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, il punto di maggiore sofferenza. Non che le cose andassero bene in passato. Il paese, che per decenni è stato dominato dal pugno di ferro del dittatore Omar al-Bashir, ha infatti molto sofferto per il conflitto del Darfur e ha visto la secessione della parte meridionale del paese, dopo innumerevoli scontri etnici e religiosi. Una scissione che non ha portato la pace a nessuno dei contendenti, dato che la nuova nazione (denominata Sud Sudan) è ancora vittima delle lotte interne, nonostante abbia compiuto quasi quattordici anni di vita.

L’attuale tragedia del grande Sudan è il frutto di uno scontro senza esclusione di colpi fra due corpi armati fedelissimi al precedente dittatore. Il primo di questi (SAF) è guidato dal comandante in capo dell’esercito regolare sudanese, generale Abdel Fattah al-Burhan, e l’altro dal comandante di una milizia creata proprio per proteggere al-Bashir. Una struttura militare denominata Forza di Supporto Rapido (RSF) che fa capo all’avventuriero Delgago che, come nome di battaglia, viene chiamato Hemdedti.

Non esistono tra di loro sostanziali divergenze ideologiche: si tratta solo di una lotta senza fine per il potere sulle forze militari sudanesi che si sarebbero dovute integrare fra loro.

Come conseguenza il Sudan è ormai diviso in due parti, tra le quali l’unica caratteristica comune è l’oppressione sulle popolazioni dei territori occupati. In un paese che conta intorno ai cinquanta milioni di abitanti, i morti ammontano a moltissime decine o centinaia di migliaia. Un quarto della popolazione è stata costretta a lasciare le proprie abitazioni, venticinque milioni soffrono la fame e almeno due milioni sono fuggiti all’estero, soprattutto in Chad e in Egitto, dove vivono in situazioni disastrose. A parte la drammatica scarsità di cibo, ai milioni di rifugiati non viene permesso di costruire alcuna struttura abitativa per evitare che il loro insediamento diventi definitivo. Sopravvivono disperati nel deserto.

Dal punto di vista strettamente formale nessun paese vicino si schiera con uno dei due contendenti ma, di fatto, le tensioni possono continuare nel tempo solo perché le potenze della regione, e non solo, forniscono aiuti ed armamenti ai due contendenti. L’Egitto e l’Arabia Saudita sostengono l’esercito regolare della SAF, mente gli Emirati Arabi sono schierati con la milizie del RSF. Tuttavia, trattandosi di un conflitto senza regole, i cambiamenti di fronte sono all’ordine del giorno. La Russia, ad esempio, all’inizio della guerra era ritenuta essere vicino all’RSF, mentre oggi viene inclusa fra coloro che sostengono la SAF. Si parla persino di casi paradossali per cui istruttori russi e ucraini opererebbero congiuntamente nel sostenere l’esercito della SAF. Quasi si volesse mettere in pratica il tragico detto che “finché c’è guerra, c’è speranza”.

Naturalmente questi sordidi intrighi vengono alimentati da interessi materiali che ancora più allontanano ogni prospettiva di pace, come la fornitura di armi in cambio di oro o di altri minerali prodotti in Sudan. A questo si aggiungono interessi strategici che direttamente dipendono della guerra civile in corso. E’ infatti condivisa opinione che il sostegno della Russia alla SAF sia frutto di un accordo per permettere alla Russia stessa l’insediamento di una base navale nel Mar Rosso, oggi di importanza fondamentale per tutti i traffici marittimi e strategico dal punto di vista militare.

A questo punto ci si deve chiedere perché l’ONU non sia in grado di intervenire per porre fine a un conflitto che trova un’origine sostanzialmente interna a un paese. La risposta è semplice: in un periodo storico in cui domina l’incertezza e si ridefiniscono i rapporti di potere in tutto il pianeta, nessun conflitto è ritenuto minore e tutto passa dall’Assemblea dell’ONU al Consiglio di Sicurezza, dove ciascuna delle cinque grandi potenze può mettere il veto.

Di fatto nel novembre del 2024 la Russia ha posto il veto riguardo a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva la fine del conflitto in Sudan. Per la Russia si sarebbe trattato di un’interferenza in un affare interno di un paese. Questo è il dramma che oggi stiamo vivendo: tutte le grandi potenze, quando sono in gioco i loro interessi, interferiscono negli affari interni di ogni paese, ma impediscono ogni intervento pacificatore che possa mettere a rischio questi interessi, sostenendo che si tratta di una violazione delle regole internazionali. Dall’ormai certificata impotenza dell’Assemblea delle Nazioni Unite si sta passando ad un’altrettanto generalizzata impotenza del Consiglio di Sicurezza, paralizzato dai veti anche quando si tratta di conflitti interni ai paesi africani. A questo punto, dato che siamo entrati nell’Anno Santo, non ci resta che sperare nell’intervento di un’Autorità ancora superiore.

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