Studi multidisciplinari, analizzati e incrociati dalla psicologia sociale, hanno attestato come il mito della meritocrazia incarni uno dei principali fattori concorrenti a mantenere elevato l’indice di disuguaglianza all’interno dei paesi occidentali. Si rivelano molteplici i fattori implicati nella creazione e nel mantenimento delle disuguaglianze sociali, e occorre che vengano indagati e divulgati attraverso un approccio multidisciplinare, su più livelli. Pertanto, in questa sede, mi accingerò ad introdurre solo tre di questi coefficienti: la percezione di disuguaglianza, la consapevolezza del privilegio, il mito della meritocrazia.
Si tratta di coefficienti invisibili, che solo a seguito di uno sguardo attento e di una accurata riflessione possono consolidarsi in consapevolezza. Per giungere a un solido stato di coscienza della realtà che circonda il modello di società che abitiamo è utile usufruire di quegli strumenti che la ricerca mette a disposizione: i report, le statistiche, i dati, e le tesi frutto di elaborazione di questi ultimi.
Ma qual è il motivo che si cela dietro l’importanza di una coscienza della realtà che ci circonda? Conoscerla e riconoscerla è il primo e imprescindibile passo per poterla cambiare. La motivazione è intuibile e può apparire banale, eppure risulta complesso attuarla, perché? Per avvicinarsi a quel passo è necessario rimuovere i veli che rafforzano credenze erronee, le quali, nel corso del tempo, si sono naturalizzate e radicate attraverso un processo di egemonia culturale. (Per approfondire suggerisco la lettura di Gramsci, Bourdieu, e dei lavori della psicologa sociale Chiara Volpato)
Normalizzazione della disuguaglianza
“la cultura del privilegio tende, per sua natura, a normalizzare la disuguaglianza, cancellandone l’origine storica e facendola percepire come naturale, scontata, ineliminabile”
(Chiara Volpato – Le radici psicologiche della disuguaglianza)
Seppure sia molto diffusa la percezione per cui le disuguaglianze, nella storia dell’essere umano, siano sempre esistite in modo naturale, in verità, queste, hanno cominciato ad animarsi a partire dalla nascita della società agricola. Per millenni l’uomo ha vissuto la propria esistenza e coesistenza in comunità molto più egualitarie delle società contemporanee, basate sulla condivisione delle risorse. A documentarlo sono le numerose ricerche sulle società precedenti all’agricoltura, come quella dei cacciatori e dei raccoglitori.
Con l’avvento del sistema agricolo è nata la possibilità di accumulare beni, la quale ha stimolato la competitività e l’individualismo, ulteriori elementi chiave che autorevoli ricerche multidisciplinari hanno correlato ai movimenti dell’indice di disuguaglianza nei paesi occidentali.
Nonostante le sue origini storiche, la tendenza è quelle di ascrivere le disuguaglianze a un aggregato dotato di valore innato e naturale, come se queste siano parte della natura stessa dell’essere umano e dell’essenza delle società. Tuttavia, come lo studio della storia dimostra, si tratta di un costrutto esito di un processo elaborato. E tale percezione incarna il risultato di dinamiche complesse che sono guidate da un’intricata rete di processi psicologici e psicosociali circoscritti a un contesto di egemonia culturale.
Considerare le differenze di classe come qualcosa di innato e intrinseco alla natura significa giustificarne i suoi orrori e le sue ingiustizie. Riconoscere la disuguaglianza, invece, come prodotto dell’uomo; come costruzione, e non come natura innata, permette di interromperne il perpetuarsi attraverso la sua legittimazione.
Consapevolezza del privilegio
Alla distorta percezione della disuguaglianza si affianca quella del privilegio.
“Quali sono i processi psicologici che concorrono alla costruzione della superiorità sociale?” – si domanda Chiara Volpato nel terzo capitolo delle radici psicologiche della disuguaglianza – “Un ruolo importante è giocato dai processi di confronto sociale e di attribuzione di responsabilità che favoriscono la giustificazione e la legittimazione delle disuguaglianze sociali, contribuendo a minare la consapevolezza del privilegio e dello svantaggio e a legittimare lo status quo.”
Si rivela corretto, dunque, affermare che la negazione del proprio privilegio porta di conseguenza alla negazione della disuguaglianza, e dunque alla possibilità di combatterla.
Secondo l’ultimo rapporto OXFAM “Disuguaglianza: povertà ingiusta e ricchezza immeritata”, la ricchezza globale, concentrata nelle mani di pochi, deriva principalmente da rendite di posizione. Significa che gli imprenditori di successo, raggiungono determinati traguardi grazie a una posizione di partenza avvantaggiata.
Questo vantaggio è costituito non solo dal capitale economico, ma anche dal capitale culturale, dal capitale sociale e dal capitale simbolico (vedi approfondimento su Bourdieu).
Per esempio il capitale culturale, costituito da istruzione ed educazione, consente di acquisire conoscenze e competenze utili ad accedere a luoghi come le università, i musei, i convegni, luoghi di opportunità di incontri sociali, e quindi di accrescere il proprio capitale sociale. Relazioni sociali con individui di status diverso produce stimoli e apre porte a nuovi ambienti. Il capitale culturale si fa strumento per l’ottenimento di un capitale economico, il quale genera capitale simbolico (nonché l’aura di prestigio), che a sua volta genera capitale sociale, e così via. Per ottenere un capitale culturale, però, è necessario possederne uno economico.
Questa dinamica è accompagnata da un ulteriore elemento nascosto, il fattore psicologico: “i privilegi”, aggiunge Volpato “fanno sentire a casa nel mondo”: la sicurezza di sé, la tranquillità, generate da una determinata condizione sociale, costituiscono un determinante vantaggio per la costruzione e il raggiungimento di obbiettivi.
Il concetto di privilegio, negli studi psicosociali, è sempre definito in limiti relazionali: il privilegio, quindi, esiste su confronto con l’altro. Dunque, un individuo che ha accesso agli strumenti grazie a un capitale tramandato, è da considerarsi un individuo privilegiato, avvantaggiato, sicché altri sono esclusi da tale vantaggio.
“Per molti individui”, però, “riconoscere il proprio privilegio equivale a riconoscere che essi non aderiscono a un importante ideale personale”(Knowless & Lowery, 2012) pertanto acquisire consapevolezza del proprio status diviene un processo difficile prima individualmente e poi socialmente.
“Più i membri di un gruppo dominante sostengono la norma dell’equità, meno sono sensibili alla possibilità che la loro posizione sociale sia una deviazione da questa norma”(Knowless & Lowery, 2012), questa tendenza crea un’egemonia culturale di cui anche le classi svantaggiate sono vittima. E il prodotto nocivo di tale fenomeno è il mito della meritocrazia.
Ma come si collegano percezione del privilegio e mito della meritocrazia? “I risultati degli studi”, scrive Chiara Volpato “hanno mostrato che la credenza nella meritocrazia sta alla base della negazione del privilegio, provocata dal desiderio di considerarsi persone meritevoli”.
Esplorare queste dinamiche è utile per allontanare la comunità dalla retorica meritocratica e fare luce sulle sue implicazioni sociali.
Meritocrazia: un mito da sfatare
I dati rivelano che le disuguaglianze sociali ed economiche sono in costante aumento, e la discrepanza tra chi possiede troppo e chi molto poco si allarga di anno in anno. Si tratta di un’ingiustizia che, a seguito della complessità di fattori psicologici e psicosociali, spesso, non viene né riconosciuta né percepita come tale. Uno di questi fattori è individuabile nel mito della meritocrazia, che, nell’ombra del suo sensazionalistico ottimismo, attraverso le dinamiche psicosociali prima introdotte, è in grado di legittimare le disuguaglianze.
Secondo la visione meritocratica, il successo personale e professionale è determinato unicamente dal talento, dall’impegno e dalle capacità individuali. Ma come abbiamo visto nella sezione precedente, il conseguimento di un traguardo è ascrivibile – oltre che al proprio sé – alle eredità che ci sono tramandate, alla situazione che abitiamo, e non certo alla formula magica “volere è potere” – che pure per “volere” occorre che si abbiano le condizioni adeguate.
Il successo economico e la mobilità sociale sono determinati da fattori esterni al controllo personale piuttosto che dal mero merito individuale: il capitale culturale, sociale e simbolico si rivelano essenziali. Infatti, nonostante l’ideologia dominante per cui “volere è potere” il mondo occidentale è segnato da una mobilità sociale pressoché nulla, e da un indice di disuguaglianza elevato e contraddistinto da una crescita costante. A confermarlo è l’ultimo rapporto OXFAM secondo cui “il 44% della popolazione globale vive oggi con meno di 6,85 $ al giorno; in una simmetria perversa l’1% più ricco al mondo possiede quasi la stessa proporzione, il 45%, della ricchezza del pianeta”.
Nel 2024 la ricchezza dei miliardari è cresciuta, in termini reali, di 2 mila miliardi di dollari, pari a circa 5,7 miliardi di dollari al giorno, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. Nel frattempo il tasso di riduzione annua della povertà estrema (condizione in cui versa chi non dispone di risorse giornaliere superiori a 2,15 dollari) è in forte rallentamento.
“Ai super-ricchi piace dire che per accumulare enormi patrimoni ci vogliono abilità, determinazione e duro lavoro. Ma la verità è che gran parte della ricchezza estrema non è ascrivibile al merito”, afferma Amitabh Behar, direttore esecutivo di Oxfam International, “molti dei cosiddetti ‘self-made men’ sono in realtà eredi di grandi fortune, tramandate per generazioni”. Gli esiti della minuziosa analisi di Oxfam lo confermano: Il 36% della ricchezza dei miliardari è ereditata (p.11 scarica il rapporto).
Se la meritocrazia, in tutta la sua purezza, fosse situata alla base sei sistemi neoliberali, i grafici riporterebbero una discrepanza nettamente minore e ascrivibile al merito. I dati mostrati dal report, invece, documentano numericamente come la concentrazione della ricchezza non sia frutto del merito individuale, ma piuttosto di un sistema economico che favorisce l’accumulo di risorse da parte di una minoranza privilegiata, creando un circolo vizioso.
Questo meccanismo viene continuamente alimentato dell’egemonia culturale la cui narrazione dominante spinge a credere al mito della meritocrazia. (Per approfondire la questione dell’egemonia culturale nel caso specifico della meritocrazia vedi “Le radici psicologiche della disuguaglianza”, Chiara Volpato, p.111).
Un rapporto dell’OCSE evidenzia come la mobilità sociale sia estremamente limitata: la posizione economica dei genitori diviene un indicatore che predice il futuro reddito dei figli. Questi studi smontano l’idea che i paesi occidentali vivano in società meritocratiche, e dimostrano il peso dei privilegi ereditati.
La narrazione meritocratica, quindi, non solo ignora queste disuguaglianze, ma le legittima, presentandole come il risultato naturale di differenze individuali. Un discorso, spesso utilizzato dalle élite per giustificare il proprio status e mantenere l’immobilismo sociale, che si traduce in egemonia culturale.
Una stima realistica in virtù di un possibile sgretolamento delle disuguaglianze
Per quanto possa apparire affascinante e rassicurante credere nella meritocrazia, questa tendenza porta a credere che ogni individuo parta dal medesimo punto di partenza, e che quindi ogni individuo sia dotato di uguali possibilità di raggiungimento dei medesimi traguardi. Questa credenza, però, offusca la realtà di una gara che si svela differente, dove la maggior parte dei vincitori – che costituiscono una piccolissima percentuale della popolazione – ha, in verità, ricevuto qualche passaggio in macchina, altri hanno dovuto scalare montagne incontrate lungo il percorso, altri, invece, hanno dovuto scalarle per potervi accedere, molti non hanno nemmeno potuto iscriversi alla gara, e altri ancora neppure ne erano a conoscenza.
Secondo la logica meritocratica i perdenti e i vincitori hanno responsabilità del proprio risultato, celando la verità dei vantaggi e degli svantaggi.
Il mito della meritocrazia corrisponde a una narrazione che ignora la complessità delle dinamiche sociali e psicosociali, così perpetuando l’illusione di un sistema corretto, giusto, paritario, oscurando i macro e micro-meccanismi che alimentano le disuguaglianze.
“Un fattore che concorre alla legittimazione delle disuguaglianze sociali è legato al modo in cui, nella vita quotidiana, formuliamo i giudizi sulle responsabilità e sulle cause di successo o insuccesso nel raggiungimento degli scopi che ci siamo prefissi”.
(Chiara Volpato – Le radici psicologiche della disuguaglianza)
Partire dal riconoscimento del proprio privilegio significa riconoscere la disuguaglianza; accorgersi delle differenze di opportunità permette ai cittadini di chiedere giustizia, e alla politica di costruirla.
Il consolidamento di una società più equa richiede una pluralità di interventi che si dispongono su numerosissimi livelli. Il mito della meritocrazia, la consapevolezza del privilegio, e la percezione della disuguaglianza corrispondono solo a uno di questi, ma coincidono con uno di quei punti d’azione su cui si può cominciare a lavorare da ora, da sé, dal modo di comunicare. Attraverso l’apertura a un modo diverso di leggere le cose, le persone, le società. Occorre aprirsi all’informazione, all’ascolto, alla riflessione, alla consapevolezza; modificare la propria postura attraverso un messaggio di verità e la decostruzione del mito – che solo indagando e riconoscendo la realtà vi si possono scovare le ingiustizie, osservarle, nominarle, combatterle.
Alessandra Familari
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