«Il Venezuela non si può colonizzare»

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Maduro ha giurato sulla Costituzione originale davanti allo speaker dell’Assemblea Jorge Rodriguez – Reuters

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«Dite quello che volete, ma nessuno è riuscito a impedire il mio giuramento». Un Nicolás Maduro spavaldo e sorridente si è presentato all’Assemblea nazionale per la cerimonia ufficiale di inizio mandato. Il terzo da quando è subentrato al defunto Hugo Chávez, nel 2013. Alle 10.53, ora locale, ha pronunciato la formula di rito sull’originale dell’attuale Costituzione, firmata dal predecessore, di fronte allo speaker del Parlamento, Jorge Rodríguez che gli ha consegnato la fascia presidenziale. «Giuro su questa Costituzione che questo sarà un mandato di pace, di prosperità e di nuova democrazia. Lo giuro sulla storia, sulla mia vita, e lo rispetterò», ha detto enfaticamente prima di lanciarsi in un duro j’accuse contro l’opposizione e l’Occidente che la sostiene. «Il Venezuela non si colonizza né si domina, né con la diplomazia del bastone né con quella della carota». E non ha mancato di lanciare una frecciata al vetriolo al rivale al voto del 28 luglio, Edmundo González: «Qualcuno è caduto laggiù? Chi è, Edmundo? È arrivato? Lo sto aspettando, sono nervoso». Il riferimento è alla promessa del rivale di presentarsi a Caracas per assumere l’incarico che gli spetta secondo la gran parte della comunità internazionale. Maduro si è proclamato vincitore dell’ultima competizione – con il 52 per cento dei consensi – senza mostrare le prove del risultato. Al contrario, l’opposizione ha diffuso la documentazione dell’80 per cento delle schede – ottenuta da fonti interne ai seggi e certificata dal centro Carter e dall’Organizzazione degli Stati americani (Osa) – da cui emergere il proprio trionfo, con il 70 per cento delle preferenze. Costretto alla fuga in Spagna a settembre a causa della repressione, González è tornato in America Latina e, al momento, si trova in Repubblica Domenicana. Da lì, fino all’ultimo, aveva ribadito l’intenzione di tornare in patria dove lo attende un mandato di arresto. Non l’ha, però, fatto. “Lo farà quando ci saranno le condizioni”, ha garantito via video sui social María Corina Machado, leader dell’opposizione esclusa dalla consultazione dalle autorità, fedelissime al regime. Al suo posto aveva indicato come candidato González, ex diplomatico 75enne, noto per la propria capacità di mediazione. La “Lady di ferro” di Caracas, come la chiamano per la sua ammirazione per Margaret Thatcher, si è presentata al corteo di giovedì e ha denunciato di essere stata arrestata. Affermazione smentita non solo dal governo ma anche da fonti anti-chaviste.

La vicenda non è chiara. Fatto sta che in una manciata di ore, Machado ha fatto sapere di essere libera e al sicuro. L’assenza dei volti più noti del dissenso ha avuto un impatto evidente sull’umore delle folle anti-chaviste: le grandi manifestazioni annunciate non ci sono state. Decisivo il “pugno di ferro” preventivo del governo che ha fatto decine di arresti nell’ultima settimana. E blindato letteralmente la capitale nonché il confine con la Colombia. Sotto lo sguardo vigile delle forze armate, un manipolo di sostenitori si è radunato di fronte al Parlamento per acclamare il loro presidente. Quest’ultimo appare disposto ad affrontare “sei anni di solitudine” internazionale. Gli Usa sono stati molto chiari nel negare l’illegittimità del nuovo mandato. «Non ha diritto ad essere presidente», ha tuonato il segretario di Stato, Antony Blinken. Washington ha aumentato da 15 a 25 milioni di dollari la “taglia” sul leader e sul ministro dell’Interno, Diosdado Cabello. E imposto restrizioni sui visti a otto funzionari venezuelani e sanzioni economiche nei confronti di otto dirigenti aziendali. Analoga la posizione dell’Unione Europea che ha rinnovato per un altro anno le misure restrittive nei confronti di quindici vertici. Provvedimenti simili sono arrivati da Canada e Gran Bretagna. Ad eccezione dei fedelissimi Cuba e Nicaragua, l’America Latina – con minore o maggiore determinazione – ha di fatto voltato le spalle a Maduro. Tra i critici più veementi il presidente cileno nonché emblema della nuova sinistra Gabriel Boric. Luiz Inácio Lula da Silva, icona, invece, del progressismo storico, dopo aver cercato invano di mediare con Caracas, ne ha preso le distanze. L’ostracismo, però, non ha scalfito la determinazione di Maduro a restare a Palazzo di Miraflores a dispetto dell’opinione pubblica globale. Nemmeno la minaccia di Donald Trump alla Casa Bianca – artefice della «pressione a oltranza» per farlo cadere nel 2019 – l’ha spinto a rispettare i patti con il più morbido Joe Biden. Probabilmente confida nella “distrazione” del mondo, concentrato su dossier più impellenti. In effetti, il silenzio generale di ieri, al di là delle condanne formali, è stato un messaggio eloquente. L’altro fattore su cui punta Maduro è la frammentazione dell’opposizione che, dopo aver trovato un’inedita unità in occasione del voto, appare incapace di trovare una strategia comune. E di perseguirla. Un male cronico per il fronte anti-chavista. Forse, più ancora delle armi russe e dei prestiti cinesi, è quest’ultima la causa della longevità della rivoluzione bolivariana.





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