La lunga traversata delle donne contro il potere della “Maschiocrazia”

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MARTA CARTABIA

L’articolo della presidente emerita della Corte Costituzionale è la prefazione del libro “Maschiocrazia” di Emanuela Griglié e Guido Romeo.

Nel cuore di Roma, all’interno di Palazzo Montecitorio, dal 2016 c’è uno specchio nel quale tutte le ragazze dovrebbero riflettersi almeno una volta. Si trova nella Sala delle Donne, allestita nel corso della XVII legislatura per iniziativa della allora presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini. È un luogo forse ancora poco noto all’opinione pubblica, ma importante per capire l’evoluzione del nostro Paese. Su una parete, la Sala ospita i ritratti delle 21 deputate elette nel 1946 tra i 556 membri all’Assemblea Costituente e che seppero lasciare il segno nella nostra Carta Costituzionale, soprattutto sui temi dell’eguaglianza di genere, tanto nella famiglia quanto nella vita pubblica (artt. 3, 29 e 51 della Costituzione). Ci sono poi i ritratti delle prime sindache elette tra la primavera e l’autunno del 1946, della prima donna che ha assunto la carica di ministro, Tina Anselmi, della prima presidente della Camera, Nilde Iotti, e della prima presidente di Giunta regionale, Anna Nenna D’Antonio. Con la XVIII legislatura è stato aggiunto il ritratto della prima presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati e, nel 2022, il ritratto di Giorgia Meloni, prima donna presidente del Consiglio dei Ministri. Si parva licet, anche chi scrive ha l’onore di esservi ritratta dal 2019, in quanto prima presidente della Corte Costituzionale.

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Accanto a tanti volti, che stanno a simboleggiare le tappe dell’eguaglianza di genere nella storia della Repubblica, vi è una cornice senza volto per ricordare che la carica di presidente della Repubblica non è stata ancora ricoperta da una donna. O meglio, si tratta di una cornice che inquadra uno specchio: un invito alle giovani donne che visitano la Sala a immaginarsi in quel ruolo, in un futuro non troppo lontano. Trovo che l’idea dello specchio sia molto bella, perché parla direttamente alle ragazze, come a dire: «Provate a guardarvi allo specchio: assumere un’alta carica istituzionale è alla vostra portata, non è una meta irraggiungibile».

Se oggi quello specchio è un invito credibile rivolto a tutte le giovani donne è grazie alla storia già compiuta dal nostro Paese, simboleggiata dai ritratti che lo fronteggiano. I tanti volti femminili che rappresentano l’Italia all’alba della Repubblica testimoniano un grande fermento democratico e un grande desiderio di partecipazione, oggi magistralmente portato sul grande schermo da Paola Cortellesi nel suo film C’è ancora domani, ambientato proprio nel 1946, alla vigilia del primo vero suffragio universale che ha aperto la strada alla nascita della Repubblica Italiana. Una partecipazione così ampia e sentita non nasce all’improvviso: era stata preparata nell’associazionismo sociale, nella vita dei partiti popolari di massa, nel grande e diffuso desiderio di voltare pagina e di essere protagonisti di una nuova fase della storia italiana. Quelle lunghe file rappresentate nel film e in tanti documentari dell’epoca denotano una grande aspettativa di cambiamento, tanto nella dimensione pubblica quanto nelle relazioni private interpersonali. Trovo che la cura con cui Delia si prepara al grande appuntamento elettorale – la camicetta nuova, il rossetto, la trepidazione delle ore precedenti – esprima in modo poetico e profondo il valore di quel gesto, che è assieme partecipazione alla vita pubblica e, come si direbbe oggi, empowerment personale. Alla vista di Delia in attesa del suo turno per recarsi alle urne, anche il marito violento, rozzo, greve e capace solo di sopraffazione accusa il colpo perché si rende conto di avere davanti una persona che esige rispetto.

Quella voglia di partecipazione produsse risultati evidenti nel breve e nel lungo termine. Dobbiamo riconoscere che l’Italia oggi ha recuperato terreno su tanti fronti della parità di genere rispetto ai quali è partita in ritardo. Non ultimo quello della magistratura. Infatti, nonostante i chiari principi della Costituzione sull’eguaglianza dei sessi, anche con specifico riferimento ai pubblici uffici, le donne non hanno potuto entrare in magistratura fino al 1963 a causa di un vero e proprio divieto legislativo a esercitare la funzione giudiziaria, insieme ad altre funzioni pubbliche. È stato grazie al coraggio e alla tenacia di una giovane donna, Rosa Oliva, la cui storia è stata inclusa tra quelle raccontate da Eliana di Caro nel suo bel libro Magistrate finalmente, che le cose sono cambiate.

Nel 1960 Rosa ottenne dalla Corte Costituzionale l’annullamento della legge del 1919, in applicazione della quale il ministero dell’Interno aveva respinto la sua domanda di ammissione al concorso per la carriera prefettizia. La sentenza della Consulta n. 33 del 1960 segnò una svolta storica, perché aprì la strada alla legge 66 del 1963 la quale stabilì, all’art. 1, che: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge».

Oggi queste parole suonano come un’ovvietà. Eppure allora i dibattiti parlamentari che portarono all’approvazione della legge del 1963 raccontano di resistenze culturali che ostacolavano quel passaggio. A pochi anni dalla grande rivoluzione dei costumi del ’68, molti deputati non avevano pudore ad affermare pubblicamente che le donne erano poco idonee all’esercizio di certe funzioni, tra cui quelle del giudicare, perché i loro cicli biologici in certe fasi della vita non le rendevano sufficientemente equilibrate e razionali. La vicenda di Rosa Oliva è importante perché ci ricorda che anche la singola persona può fare la differenza e può innescare un grande cambiamento storico, a beneficio di tutti. Ma questo grande cambiamento fu poi effettivamente possibile perché, dopo di lei, Gabriella, Giulia e le altre prime otto magistrate entrarono per quella porta socchiusa da Rosa, fino ad arrivare al 2023 quando per la prima volta una donna, Margherita Cassano, ha assunto il ruolo di primo presidente della Corte di Cassazione. Una lunga strada, resa possibile dall’impegno di molte e di ciascuno.

Confrontarci oggi con l’entusiasmo che caratterizzò l’inizio della Repubblica ci obbliga a interrogarci sulle ragioni del crescente astensionismo elettorale, in particolare sul fronte femminile. Un fenomeno che dobbiamo leggere in un contesto più generale caratterizzato dalla disaffezione alla partecipazione alla vita pubblica da parte di troppi cittadini, uomini e donne, che considero una delle più gravi problematiche della nostra democrazia, perché impatta sul corretto funzionamento delle nostre istituzioni. Tutto il sistema si basa sull’idea, apparentemente semplice e scontata, che il risultato delle urne rispecchi la volontà popolare in tutta la sua ampiezza. La validità di questa sineddoche però si incrina quando i rappresentanti sono eletti da una minoranza sempre più esigua.

Tra i fattori che concorrono a tale deriva c’è una certa modalità muscolare di interpretare la leadership politica, basata sulla semplificazione, sulla forza e sull’antagonismo. È una forma di leadership che si sta diffondendo in tutto il mondo ed è espressione di un discorso pubblico sempre più polarizzato. La scena pubblica si divide in due, secondo la logica amico-nemico che, come la storia ci insegna, è foriera di conflitti, dissidi e guerre. Il risultato è un contesto che lascia sempre meno spazio alla logica della democrazia deliberativa e partecipativa, in cui la volontà democratica si forma attraverso la costruzione del consenso e la condivisione di linee comuni nell’ambito di una società plurale e complessa, e non si riduce alla volontà del gruppo (spesso una minoranza) che ha vinto la competizione elettorale. I social media favoriscono questo tipo di non-dialogo, antagonizzante e incline alla denigrazione dell’avversario, generatore di schieramenti e tifoserie incapaci di vedere la complessità e di trovare punti di accordo, indispensabili per portare un miglioramento al mondo in cui viviamo.

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È una deriva pericolosa, che scoraggia la partecipazione alla vita politica e sociale, genera scetticismo e diffonde tra i cittadini l’impressione di non contare nulla se non si è a priori dalla parte del vincitore. E così si finisce per delegare l’esercizio del potere ai gruppi, spesso minoritari, ma dominanti del momento. Sta a ciascuno di noi, come a Delia, a Rosa e a tutte le altre che hanno fatto la differenza, contrastare questo declino coltivando giorno per giorno il significato e il valore della partecipazione alla vita pubblica.

in “La Stampa” del 24 gennaio 2025



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