Oggi gli algoritmi non si limitano a ordinare risultati di ricerca o a suggerirci il prossimo film da vedere in streaming: decidono chi ottiene un mutuo, chi viene assunto, chi viene sorvegliato dalle forze dell’ordine. L’AI, osannata come neutrale e obiettiva, si rivela invece intrisa di pregiudizi umani, incorporati nei set di dati storici che la alimentano. Con quali conseguenze? E quali rimedi urgono? L’analisi di Matteo Flora nella nuova puntata della rubrica Tech Policy
Erano circa le nove del mattino nella sala riunioni di un ospedale di Chicago. Un ambiente clinico e ovattato, dove l’odore di disinfettante si mescola con il gorgoglio costante dei distributori di acqua e caffè. Tra un vociare sommesso di medici e infermieri, un algoritmo prese la sua decisione: Maria, 45 anni, due figli, una passione per il cucito, non necessitava di cure intensive. La valutazione si basava su un sofisticato sistema di “machine learning” che aveva analizzato la sua storia clinica, i suoi parametri vitali e un archivio infinito di dati sanitari provenienti da decenni di cartelle mediche.
Quella stessa notte, Maria inizierà a manifestare i primi segnali di un peggioramento. Tre giorni dopo, morirà per complicazioni che avrebbero potuto essere prevenute con un accesso tempestivo alle cure intensive. L’algoritmo non sa che la sua decisione è stata viziata da pregiudizi storici, da dati distorti che hanno messo la sua salute — e quella di molte altre persone appartenenti a minoranze— in secondo piano. Ha semplicemente fatto quello che sapeva fare: seguire pattern statistici nascosti.
Questa scena, tragicamente verosimile, racchiude l’essenza di una rivoluzione silenziosa che sta investendo la nostra epoca. Una rivoluzione che promette miracoli e, al contempo, diffonde forme di discriminazione impercettibili ma dannose: il trionfo dell’Intelligenza artificiale e dei suoi bias impliciti.
L’era dei bias algoritmici
Oggi, gli algoritmi non si limitano a ordinare risultati di ricerca o a suggerirci il prossimo film da vedere in streaming: decidono chi ottiene un mutuo, chi viene assunto, chi viene sorvegliato dalle forze dell’ordine. L’IA, osannata come neutrale e obiettiva, si rivela invece intrisa di pregiudizi umani, incorporati nei set di dati storici che la alimentano.
Le prove sono ovunque:
- Credit scoring: sistemi di valutazione creditizia che, senza alcuna spiegazione apparente, rifiutano sistematicamente prestiti alle donne o alle minoranze, anche a parità di condizioni economiche.
- Riconoscimento facciale: software che presentano tassi di errore nettamente superiori (fino al 34%) nell’identificazione di persone con pelle scura, generando potenziali aberrazioni nell’ambito della sicurezza e della sorveglianza.
- Algoritmi di assunzione: piattaforme di selezione del personale che penalizzano candidati provenienti da aree urbane “svantaggiate”, consolidando un circolo vizioso di esclusione.
Il fenomeno è subdolo: spesso i designer di questi sistemi sono in buona fede e non si rendono conto di come i dati — storicamente segnati da pregiudizi — possano diventare la base di calcoli matematici che perpetuano ingiustizie. Oggi, la discriminazione si è spostata dalle scrivanie degli uffici risorse umane agli algoritmi, e ciò che un tempo era frutto di un pregiudizio “palpabile” ora si trasforma in un’azione matematica astratta e di difficile contestazione.
La guerra dei valori
Gli esperti di tecnologia e scienze sociali, comprensibilmente, si concentrano sui bias misurabili e più evidenti. Ma una sfida ancor più profonda incombe sul nostro orizzonte: l’emergere di veri e propri sistemi di valori “artificiali”.
In questo scenario, ogni grande azienda tecnologica sta assumendo una propria “personalità morale”:
- OpenAI che rifiuta sistematicamente contenuti dannosi, spingendo verso una forma di “moderazione automatica” che però rischia di silenziare anche voci critiche o di confine.
- DeepSeek che privilegia l’efficienza e la velocità di calcolo a scapito della privacy, sostenendo che i dati personali debbano essere raccolti e utilizzati per migliorare l’accuratezza dei modelli.
- Anthropic che codifica una filosofia orientata al benessere a lungo termine, lavorando per ridurre l’impatto ecologico e promuovere la sostenibilità come valore chiave.
Queste non sono semplici differenze di carattere ingegneristico: sono visioni del mondo. E come tali, entrano in competizione. Quando i sistemi di IA si diffondono in ogni aspetto della nostra vita, dal posto di lavoro ai tribunali, dalle scuole agli ospedali, ci troviamo di fronte a una domanda che non è più soltanto “tecnica”, ma profondamente etica e politica.
L’urgenza di un comitato per l’etica
In un momento in cui l’Intelligenza Artificiale procede a velocità vertiginose, i comitati etici non sono più un vezzo accademico. Sono, di fatto, l’unica paratia che possiamo alzare per proteggere la società da derive che, a lungo andare, potrebbero diventare incontrollabili.
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Eppure, non basta riunire attorno a un tavolo qualche esperto di tecnologia: servono professionisti con competenze trasversali, in grado di vedere il problema da ogni angolatura.
- Filosofi morali: per districare i nodi etici più complessi, offrendo riferimenti teorici sul bene comune, la giustizia distributiva e la dignità umana.
- Antropologi: per comprendere come valori, norme e culture diverse possano influenzare la percezione di ciò che è “giusto” o “desiderabile”.
- Psicologi: per prevedere l’impatto che decisioni automatizzate possono avere sulla psiche umana, dalla fiducia nell’autorità alla percezione di sé.
- Esperti di diritto: per anticipare implicazioni legali e costruire un quadro normativo capace di evolversi assieme alla tecnologia.
- Data scientists: per analizzare i dati e garantire che la progettazione degli algoritmi risponda a criteri di equità e trasparenza.
- Esperti di dominio: perché un algoritmo medico non può essere corretto senza la supervisione di dottori, infermieri, pazienti e tutte le figure che vivono quotidianamente la complessità di un ospedale.
È questa la complessità della materia: non si tratta solo di aggiustare un pezzo di codice, ma di disegnare i contorni morali di un futuro che si sta materializzando a velocità record.
La finestra che si chiude
Più i sistemi di IA diventano potenti e autonomi, più diventa difficile cambiare la loro struttura di valori di base. Una volta che un algoritmo ha imparato a “pensare” in un certo modo, correggerlo equivale a rieducare un adulto con convinzioni radicate. È un processo possibile, ma lungo e costoso in termini di risorse e tempo, e a volte può non essere neppure sufficiente.
La posta in gioco è altissima. Stiamo già osservando le conseguenze della mancata supervisione:
- Moderazione dei contenuti: algoritmi che censurano o limitano discussioni potenzialmente costruttive, non riconoscendone il valore formativo o scientifico.
- Giustizia predittiva: sistemi che segnalano come “ad alto rischio” individui già svantaggiati, perpetuando un circolo di povertà e di criminalizzazione.
- Assistenti virtuali: interfacce vocali e chatbot che propongono risposte discriminatorie, o che normalizzano stereotipi e visioni sessiste o razziste, perché allenate su dataset di linguaggio distorto.
Se non interveniamo ora, rischiamo di consolidare in maniera irreversibile quelle che oggi sono ancora contraddizioni in fase embrionale. Una sorta di “peccato originale” tecnologico che, una volta stabilizzato e diffuso, diventerà enormemente più complesso da sradicare.
Il momento di agire è ora
Ogni riga di codice scritta oggi è un tassello che compone l’architettura morale dei sistemi di domani. Non possiamo più permetterci di rinviare. Dobbiamo riconoscere che la responsabilità etica non è solo un tema “da grandi aziende”, ma un imperativo collettivo: dalle università che formano i prossimi ingegneri, ai governi che promulgano leggi e regolamenti, fino ai singoli cittadini che devono pretendere trasparenza e sicurezza.
La velocità con cui le IA si stanno insinuando in ogni ambito del vivere è impressionante. Per questo, la creazione di comitati etici adeguatamente finanziati, formati e indipendenti non è un’opzione facoltativa, ma un dovere morale. E il processo deve iniziare immediatamente.
Le lunghe dissertazioni accademiche, per quanto preziose, si scontrano con la concretezza dell’emergenza. Ogni ritardo aumenta il rischio che i nostri sistemi di IA crescano senza un’adeguata guida, diventando arbitri inconsapevoli ma potentissimi delle nostre sorti.
Non c’è più tempo per domandarci se servono comitati etici: la vera domanda è se sapremo istituirli in tempo per evitare che le intelligenze artificiali decidano, in modo irrevocabile, che il destino di Maria — e di milioni di altri individui in posizioni vulnerabili — non valga la pena di essere salvaguardato. Perché il “futuro” è già cominciato, e noi siamo chiamati a modellarlo ora, prima che sia troppo tardi.
Coraggio e responsabilità per le corporate
L’innovazione tecnologica non è, di per sé, un male. Anzi, l’Intelligenza Artificiale offre la possibilità di rivoluzionare interi settori, dalle catene di fornitura all’assistenza sanitaria, aumentando l’efficienza e creando nuove opportunità di mercato. Tuttavia, come ogni rivoluzione, porta con sé rischi che possono minare l’integrità di un’organizzazione e la fiducia che il pubblico ripone in essa. Il bias algoritmico, per esempio, non è solo un problema di equità sociale o di giustizia: per un’azienda, rappresenta un potenziale danno reputazionale e un ostacolo a un rapporto duraturo con i propri clienti e stakeholder. È qui che entra in gioco la necessità di un Comitato Etico sull’IA, posto direttamente a livello di Board, con il potere e l’autorità di influenzare le decisioni strategiche prima che si consolidino in prodotti o processi destinati al mercato.
Avere un organismo interno dedicato alla valutazione etica delle tecnologie, insediato in seno al Consiglio di Amministrazione, non significa frenare l’innovazione: vuol dire incanalarla in un percorso sicuro e responsabile. Vuol dire garantire trasparenza sulle scelte algoritmiche, attivare un monitoraggio costante per evitare che dati distorti producano soluzioni discriminatorie e infine preservare la reputazione dell’impresa in un contesto in cui i consumatori, sempre più consapevoli, chiedono standard elevati di responsabilità sociale. Significa, in altre parole, prendere atto che la libertà di innovare è inseparabile dalla capacità di rispondere delle conseguenze di quell’innovazione. In un mondo dove l’IA rischia di assumere un ruolo di “arbitro morale”, l’impegno diretto del Board diventa la migliore garanzia per integrare i valori fondamentali — equità, giustizia, dignità umana — nelle fondamenta stesse di ogni soluzione tecnologica.
Non è solo una questione di conformità alle normative vigenti o di premunirsi contro cause legali future. È soprattutto un investimento di lungo periodo: un Comitato Etico sull’IA, quando è parte integrante del vertice societario, rafforza la coesione tra reparti e culture aziendali diverse, promuove la condivisione di obiettivi comuni e assicura che lo sviluppo tecnologico non sia gestito come un’entità separata e incontrollata, ma come un motore di crescita sostenibile. Ogni riga di codice, ogni nuova applicazione dell’IA e ogni servizio lanciato sul mercato diventa così occasione per affermare i valori della corporate e per distinguersi in uno scenario competitivo sempre più complesso. Adottare con coraggio questo modello di governance non significa frenare il progresso, bensì assumersi la responsabilità di guidarlo, consapevoli che il tempo — proprio come gli algoritmi — avanza inesorabilmente e premia chi riesce a prendere decisioni lungimiranti prima che le criticità si trasformino in emergenze.
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