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Servono ancora gli occhiali di Ortese per leggere la Napoli di oggi #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


Elio Vittorini, nel pubblicare Il mare non bagna Napoli nella sua collana di Einaudi «I Gettoni», non servì un gran regalo ad Anna Maria Ortese. Perché non poteva non riconoscerle uno strepitoso talento, eppure non volle proteggerlo. La lanciò sul tavolo del mondo editoriale con il gusto di chi mostra la sua Wunderkammern: nella bandella che accompagna il libro dice che le storie a tratti hanno troppo verismo, la chiama zingara.

Ma soprattutto, in uno dei sei racconti che compone la silloge, quello che titola Il silenzio della ragione Vittorini le suggerì di mettere i nomi veri delle persone di cui parlava senza sconti. Erano Raffaele La Capria («che aveva il suo primo romanzo in via di stampa presso un editore del Nord»), Luigi Compagnone («impiegato all’ufficio prosa di Radio Napoli»), Michele Prisco, Mimì Rea.

Però, sempre in quella bandella, le riconosce una grandezza, davanti a tutti, e quando dico «davanti» intendo prima e per sempre, oltre chiunque abbia scritto di Napoli: «È Napoli di tutta la sua vita che essa si vede intorno: presenza e memoria insieme, e riflessione, pietà, trasporto, sdegno».

SDEGNO. Che meraviglioso sentimento, pieno di umanità, così giusto per chi voglia raccontare questa città, così nobile quando va assieme a pietà. Così doveroso in un’epoca in cui il potere politico – che non è solo quello esercitato dall’istituzione, bensì anche quello cortigiano che all’istituzione plaude, che lo rafforza, ne è servo – non accetta critiche, le teme. Si vede che anche allora, nel giugno 1953, settant’anni fa, quando esplose il caso Il mare non bagna Napoli, l’intellettuale doveva essere al servizio, sconfessando questa stessa parola, che invece dovrebbe essere solo pungolo – e stare sempre nella posizione di non dover mai dire «grazie»: che è la posizione della libertà, l’unica dalla quale si può davvero scrivere.

Anna Maria Ortese fu sommersa dalle critiche: «Il mio libro si prestava alle discussioni: fu giudicato, purtroppo, un libro “contro Napoli”. Questa “condanna” mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo negli anni che seguirono, alla mia città».

Del resto a quella città aveva sottratto, con un titolo perfetto di cinque parole, lo scorcio da cartolina di cui ancora oggi, dopo settanta anni, si fanno vanto gli amministratori quando sbandierano i dati sul turismo, come se significassero qualcosa, come se non fosse invece vero che il mare non la bagna questa città, non per chi ci deve costruire la propria esistenza laboriosa, per chi deve combattervi la propria quotidiana battaglia.
Anna Maria Ortese non ci tornò mai più (fino alla morte che la raggiunse a Rapallo, nel 1998) tranne una volta, di nascosto e di passaggio. Scrive che, poiché era ammalata di metafisica – odiava il reale -, non poteva essere oggetto dell’indulgenza dei politici, che furono i suoi critici e contestatori.

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Ma chi la sotterrò furono anche i suoi colleghi, quelli furbi, che pattinavano per accaparrarsi una piccola guardiania in un postuccio di potere. «Quella napoletana che si lamenta sempre» diceva Moravia di Ortese, riducendo un severa critica a lamentela, così che divenisse una questione personale, e non una questione sociale, che richiama tutti alla responsabilità.

Napoli, 1972, Sant’Erasmo ai Granili foto di GianLuigi Gargiulo /gianluigigargiulo.it

LA STORIA EDITORIALE di quel libro, fondamentale per comprendere il Sud e l’Italia (come il canarino in una miniera), si rinnovò nel 1994. Anna Maria Ortese aveva già vinto il premio Strega con Poveri e semplici, con la complicità di Maria Bellonci che la comprese e ne protesse il talento, anche quando appariva bizzarro ai più: scrive di lei in Pubblici segreti: «L’irrefrenabile libertà alla quale gli artisti dovrebbero aver diritto sta proprio in cose come questa (…) Obbligati a giustificarsi essi perderebbero l’innocente perentorietà del loro moto poetico».

Finché Roberto Calasso riprese in mano la sua opera omnia e la destinò al catalogo Adelphi dove ancora oggi la leggiamo. Dunque quaranta anni dopo quel libro – che chiedeva ai lettori di inforcare un paio d’occhiali assieme alla piccola miope Eugenia, di non fermarsi alla montatura d’oro ma guardarci davvero attraverso quelle lenti -, Calasso chiese a Ortese di riconciliarsi con esso, di scrivere una breve prefazione alla nuova edizione. È il 1994 e Ortese chiede scusa, dice che non aveva raccontato di Napoli ma del proprio smarrimento, che aveva proiettato lì il suo male di vivere, che dunque esso non apparteneva a Napoli. Dice che se ne era a lungo rammaricata «resta il fatto piuttosto malinconico (o solo inconsueto?) che tanto la Napoli offesa (era, poi, veramente offesa, o solo un po’ indifferente?), quanto la persona accusata di averle inventata una atroce nevrosi, non si siano in seguito più incontrate: proprio come se nulla fosse avvenuto. E non era stato così, per me».

E non era stato così neppure per noi, oggi nel 2024, ancora trent’anni dopo, quando leggiamo la classifica dei territori più vivibili nell’annuale indagine del Sole 24 ore – il Sud è tutto alla fine, Napoli penultima. E ci troviamo a farne la tara come ci ha insegnato lei ne La città involontaria, quando dice che «enunciati così sommariamente alcuni dati circa la struttura e la popolazione… ci si rende conto di non aver espresso quasi nulla».

LA CITTÀ INVOLONTARIA è un reportage narrativo di valore linguistico altissimo, inarrivabile, che racconta della visita di Anna Maria Ortese ai Granili III e IV ovvero dei lunghi edifici, un tempo adibiti a stoccaggio che, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, divennero alloggi per chi aveva perduto la casa.

Anni fa Vincenzo Trione mi invitò a leggere a degli studenti di Architettura della Federico II, un passo da un testo di narrativa in cui comparissero dei paesaggi urbani. Io foderai la copertina del libro e lessi loro da La città involontaria: «È un edificio della lunghezza di circa trecento metri, largo da quindici a venti, alto molto di più (…) L’aspetto, per chi lo scorga improvvisamente, è quello di una collina o una calva montagna, invasa dalle termiti, che la percorrono senza alcun rumore né segno che denunci uno scopo particolare (…) ho potuto contare centosettantaquattro aperture sulla sola facciata (…) secondo la più discreta delle deduzioni, solo una compagine umana profondamente malata potrebbe tollerare, come Napoli tollera, senza turbarsi, la putrefazione di un suo membro (…) qui i barometri non segnano più nessun grado, le bussole impazziscono».

Al termine della lettura chiesi loro di cosa l’Autrice stesse parlando. Qualcuno rispose Le Vele di Scampia, qualcun altro Il Lotto Zero di Ponticelli. Non c’era nulla da giustificarsi, ciò che è cambiato in settant’anni è in superficie, e viene da un moto esterno, uguale a tutte le conurbazioni occidentali: per continuare davvero a leggere Napoli occorrono ancora presenza e memoria insieme, e riflessione, pietà, trasporto, sdegno.



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