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Il 6 marzo il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo unanime sulla difesa comune dei Paesi europei. La decisione segue la proposta della Presidente della Commissione europea per un piano di riarmo dell’Europa (c.d. “ReArm Europe”) di circa 800 miliardi di euro. A livello italiano, alcune imprese stanno pensando di riconvertire la produzione dal settore civile all’industria bellica. Per esempio, la veneta Berco S.p.A, seguendo il precedente della vicina Faber S.p.a., intenderebbe passare al settore della Difesa.
A seguito dello scoppio del conflitto in Ucraina, la questione della produzione e del trasferimento delle armi è tornata a occupare una posizione di primo piano nel dibattito europeo e internazionale. Essa ha acquisito crescente enfasi negli ultimi mesi in conseguenza delle dichiarazioni dell’amministrazione Trump sul futuro della NATO e sulla sospensione degli aiuti militari all’Ucraina, rispetto alle quali l’Unione Europea ha reagito con il piano ReArm Europe e dichiarando il proprio sostegno a Kiev.
Le decisioni dell’Unione circa il trasferimento delle armi, compreso il supporto all’Ucraina, sollevano diverse questioni di diritto internazionale e aprono nuove sfide normative. Il commercio delle armi, infatti, è regolato da una serie di strumenti di diritto europeo e internazionale volti ad attenuare il rischio di gravi violazioni dei diritti umani e la commissione di crimini internazionali.
Già nel 2008 l’Unione Europea si dotava, con la Posizione Comune 2008/944, di uno strumento volto a definire “norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”. Nel 2014, 61 Stati – inclusi 25 Stati membri dell’Unione, esclusi gli Stati Uniti – ratificavano il Trattato sul Commercio delle Armi (ATT). Entrambi gli strumenti prevedono limiti alla concessione di licenze per l’esportazione di armi laddove vi sia il rischio di serie violazioni di diritti umani e delle regole del diritto internazionale umanitario nel Paese di destinazione finale.
Per quanto riguarda il contesto italiano, la Legge 185 adottata nel 1990 – adottata ben prima dell’ATT e della Posizione Comune europea – impone controlli rigorosi sulle esportazioni di materiali bellici dal territorio italiano. Essa vieta l’esportazione di materiali di armamento a Paesi coinvolti in conflitti armati in contrasto con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite e dell’articolo 11 della Costituzione italiana, a governi che violano i diritti umani e in caso di embargo imposto dalle Nazioni Unite o dall’Unione Europea.
La legge del 1990 fu una legge pioneristica per il nostro Paese, fortemente voluta dalla società civile che si mobilitò trasversalmente per ottenere disposizioni a garanzia della trasparenza e del controllo democratico su un settore strategico per l’economia e la politica estera italiana. Prima di allora, il commercio di armamenti era infatti regolato da una normativa risalente alla Seconda guerra mondiale ed era sottratto a qualsiasi forma di controllo parlamentare. Oggi, la legge è oggetto di una dibattuta riforma e ci si chiede se le modifiche in discussione siano un passo in avanti verso l’umanizzazione dei conflitti, o se costituiscano un passo indietro.
La necessità di una riforma era stata auspicata da più parti, se non altro per integrare alcuni dei principi presenti nell’ATT e nella Posizione Comune europea – per esempio, il divieto di esportazione delle armi verso quei Paesi ove vi è un rischio di violazioni del diritto internazionale umanitario – e per estendere la portata della legge alle armi leggere, attualmente escluse dal suo ambito di applicazione.
L’analisi dell’attuale disegno di legge, tuttavia, rivela alcuni punti controversi che la società civile non ha mancato di evidenziare. Tra questi, la modifica del contenuto e delle tempistiche di presentazione della relazione annuale del Governo al Parlamento. Questa relazione ha la funzione di informare il Parlamento circa i trasferimenti autorizzati nel corso dell’anno precedente, con dettaglio del tipo di armi, della destinazione e degli importi. La riforma in discussione semplifica il contenuto della relazione periodica del Governo, eliminando l’obbligo di alcune indicazioni analitiche e attenuando quindi le possibilità di controllo parlamentare. Tra le informazioni non più obbligatorie vi è anche quella relativa alle banche, nazionali ed estere, operative nel settore del commercio di armamenti italiani.
Un altro aspetto controverso riguarda la proposta di reintroduzione del CISD, un comitato interministeriale di natura politica soppresso nel 1993. La riforma intende reinserire questo organo, con funzioni di controllo delle esportazioni di armamenti. Rispetto alla versione del 1990, tuttavia, il CISD non sarebbe più tenuto a ricevere informazioni da parte delle ONG, precludendo un importante canale di comunicazione con gli esponenti della società civile. Inoltre, la reintroduzione del CISD rischierebbe di interferire con l’attività svolta dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, l’organo attualmente incaricato di decidere sull’approvazione delle singole licenze di armi.
La proposta di riforma perde anche un’importante occasione per aggiornare la legge alla luce della più recente normativa internazionale ed europea. Il disegno di legge, infatti, non richiama il divieto di esportazione verso quei Paesi ove vi è il rischio di gravi violazioni delle norme di diritto internazionale umanitario. Un simile scenario si ha, per esempio, quando le armi sono utilizzate contro i civili e quindi in contrasto con il principio di distinzione tra obiettivi civili e militari.
Il processo di riforma, infine, sconta il prezzo delle nuove sfide dettate dalla forte propensione al riarmo a livello europeo e globale. Oggi più che mai è necessario che gli Stati si dotino di stringenti legislazioni interne sul commercio delle armi, idonee a fronteggiare i rischi umanitari derivanti dal massiccio aumento della produzione e dal trasferimento delle armi. La legge 185/1990 non fa eccezione ed è necessario che la sua riforma – ancora in fase di discussione – consideri più attentamente questi profili: serve un controllo più attento sulle armi leggere, oggi regolamentate in modo blando; bisogna rafforzare le garanzie sulla destinazione finale degli armamenti e migliorare i meccanismi di monitoraggio sulle vendite, in modo da evitare utilizzi illegittimi; inoltre, è necessario introdurre strumenti per valutare i rischi a lungo termine delle esportazioni, come previsto dai trattati internazionali.
In un’epoca in cui la trasparenza e la responsabilità nel commercio di armamenti sono sempre più sotto i riflettori, l’Italia dovrà dimostrare di essere all’altezza della sua stessa tradizione normativa, bilanciando interessi politici ed economici, da un lato, e responsabilità in campo umanitario, dall’altro lato.
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