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Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 5705/2025, udienza del 18 settembre 2024, ha ribadito, conformemente alle indicazioni delle Sezioni unite penali, che gli atti (nella specie comunicazioni scambiate tramite criptofonini in possesso di un’autorità giudiziaria estera e già decrittate) oggetto di un ordine europeo di indagine costituenti «prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione» possono essere legittimamente richiesti e acquisiti dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si vorrebbe utilizzarli.
Le plurime contestazioni sollevate dalla difesa in ordine alla ritualità dei dati acquisiti dall’autorità giudiziaria francese, su cui si fonda il compendio indiziario afferente al reato in contestazione, trovano una definitiva ed appagante risposta nelle due recentissime pronunce rese dalle Sezioni unite sulla vexata quaestio delle modalità di acquisizione nel processo nostrano delle comunicazioni scambiate tramite criptofonini in possesso di un’autorità giudiziaria estera, dalla stessa già decriptate.
L’organo nomofilattico ha ritenuto la ritualità della trasmissione richiesta a mezzo di ordine europeo di indagine (OEI) da parte dell’autorità giudiziaria straniera sia che si tratti del contenuto di conversazioni scambiate tramite criptofonini, già acquisite e decriptate dal giudice straniero, sia che si tratti di intercettazioni effettuate attraverso l’inserimento di un captatore informatico sui server di una piattaforma criptata senza necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intenda utilizzarle.
Pur non rientrando nessuno dei due casi nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis, cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa nel primo caso alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen. (Sez. U, sentenza n. 23755 del 29/02/2024, Gjuzi, Rv. 286573 – 01) e nel secondo ai servizi di informazione per la sicurezza disciplinate dall’art.270 cod. proc. pen. (Sez. U, sentenza n. 23756 del 29/02/2024, Giorgi, Rv. 286598 – 01), deve ciò nondimeno escludersi l’applicabilità della disciplina prevista per le intercettazioni così come sostiene la difesa.
Nella vicenda in esame, l’OEI ha ad oggetto l’acquisizione, da parte dell’autorità giudiziaria italiana, di messaggi scambiati su chat di gruppo mediante un sistema cifrato, e già a disposizione dell’autorità giudiziaria francese, i quali incontrovertibilmente rientrano fra le «prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione».
E poiché nel sistema processuale italiano il PM e, più in generale, la parte che vi ha interesse possono chiedere ed ottenere la disponibilità di prove, tra le quali sono comprese le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, per la cui formazione è indispensabile la preventiva autorizzazione del giudice competente, già formate in un procedimento penale al fine di produrle in un altro procedimento penale, senza necessità di alcuna autorizzazione preventiva da parte del giudice competente per quest’ultimo, come si ricava dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. nonché dall’art. 78 disp. att. cod. proc. pen., ne deriva che gli atti oggetto dell’OEI costituenti «prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione» possono essere legittimamente richiesti e acquisiti dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si vorrebbe utilizzarli (Sez. U, sentenza n. 23755 del 29/02/2024, Gjuzi, Rv. 286573 – 02).
Ed infatti, come puntualizzano le Sezioni unite, unico presupposto di ammissibilità dell’ordine europeo di indagine, sotto il profilo del soggetto legittimato a presentarlo, è che «l’atto o gli atti di indagine richiesti nell’OEI avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo».
Sgombrato il campo dall’eccepita inutilizzabilità del materiale acquisito tramite l’OEI, deve rilevarsi, quanto alla copia che il ricorrente assume estratta in violazione del diritto di difesa, che la questione così come formulata è mal posta, non venendo indicato nessun elemento concreto in cui la dedotta violazione si sostanzi.
Ed invero, come chiarito dalla medesima pronuncia delle Sezioni unite, in materia di comunicazioni digitali, l’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente (Sez. U, cit. Rv. 286573 – 06). Conseguentemente in tanto può essere esclusa l’utilizzabilità del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, e trasmesse sulla base di ordine europeo di indagine, in quanto si rilevi che il loro impiego si traduca in una violazione dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo, a condizione tuttavia che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione sia assolto dalla parte interessata (Sez. U, cit. Rv. 286573 – 05).
Trovando infatti a tal fine applicazione, come più volte affermato dalla della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis: Sez. 6, n. 44882 del 04/10/2023, Rv. 285386 – 01; Sez. 3, n. 1396 del 12/10/2021, dep. 2022, Rv. 282886), i principi della presunzione relativa di conformità ai diritti fondamentali dell’attività svolta dall’autorità giudiziaria estera nell’ambito di rapporti di collaborazione ai fini dell’acquisizione di prove, ricade necessariamente sulla difesa l’allegazione e la dimostrazione del fatto dal quale dipende la violazione denunciata, ad essa accompagnandosi l’ulteriore onere di formale produzione delle risultanze documentali – positive o negative – addotte a fondamento del vizio processuale (così Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, De Iorio, Rv. 244329).
Se peraltro è contenuta nella stessa Direttiva 2014/41/UE la previsione della «presunzione relativa che gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, in particolare, i diritti fondamentali» (punto 19), risponde ciò nondimeno ad un principio immanente all’interno del nostro ordinamento la regola secondo cui per i fatti processuali, a differenza di quanto avviene per i fatti penali, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice dispone (così Sez. U, n. 45189 del 2004, Esposito, Rv. 229245).
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